Crescere respirando a pieni polmoni le mille sfaccettature del mondo dello spettacolo? È possibile.
Fabio Luigi Lionello, figlio d’arte – suo padre, Oreste Lionello, è stato un personaggio fondamentale dell’intrattenimento italiano – mi ha raccontato come ci si può innamorare di questa folle e affascinante realtà. E di come sia diventata la sua vita.
Fabio Luigi Lionello: l’intervista

Sei il primogenito di papà Oreste. Com’è stato per te e i tuoi fratelli crescere a casa Lionello, in un mondo di arte a tutto tondo?
Avendo respirato questo mondo appieno fin da piccoli, io ed i miei fratelli abbiamo vissuto la nostra crescita come qualcosa di ordinario; è l’unica normalità che abbiamo mai conosciuto. Dal lavoro di nostro padre Oreste, ognuno di noi ha colto certi aspetti di questo grande mondo; con il tempo, abbiamo trovato la nostra strada. Mia sorella Cristiana, per esempio, ha intrapreso la professione di doppiatrice, quindi si vedevano spesso in sala di doppiaggio. Quella del doppiaggio è una dimensione che tutti noi figli abbiamo toccato con mano fin da bambini. In studio con noi era molto rigoroso, con gli altri era dolcissimo, invece. Ci chiedevamo il perché di questo trattamento così diverso; con il tempo abbiamo capito il valore inestimabile degli input che ci dava in sala di doppiaggio. Se oggi posso andare a doppiare e scrivere gli adattamenti dialoghi, lo devo soprattutto alle solidissime basi che sono state fondamentali per la mia formazione. È un po’ un’epopea familiare quella del doppiaggio, che passa fatalmente di generazione in generazione.
Dimmi del tuo rapporto con papà Oreste.
Io forse sono stato quello, tra tutti i figli, che ha vissuto più vicino a papà. L’imprinting con l’arte dello spettacolo lo ebbi all’età di otto anni, quando accompagnai papà in una avventura molto speciale su un caicco di trenta metri. Insieme a Pier Francesco Pingitore e alla sua Compagnia del Bagaglino (che aveva fondato insieme a Mario Castellacci), avevano messo in piedi uno spettacolo itinerante: la barca si fermava nei porti, il pubblico saliva a bordo, e si faceva lo show, che aveva un titolo molto speciale, Barcaret. È stata un’esperienza pazzesca. Pingitore girò in quel periodo un documentario di cui io ero il protagonista, veniva raccontata questa avventura del Bagaglino, in barca, vista attraverso gli occhi di un bambino, io. Mi sono divertito moltissimo. Contemporaneamente, ho coltivato l’altra mia grande passione, lo sport. Ho fatto tanta atletica leggera, corsa a ostacoli, da quando avevo 14 anni, ho continuato per più di 10 anni. Con il passare del tempo diventai prima assistente e poi aiuto-regista di Pingitore. Così ho vissuto per un lungo periodo, quasi trent’anni, tutte le vicissitudini del teatro italiano. Sempre a contatto con papà Oreste.
Chi era Oreste Lionello e chi era papà Oreste?
C’erano due papà: uno in famiglia, e uno sul lavoro. Nostro padre era dolcissimo, e anche nel privato, ciascuno di noi figli veniva coinvolto in occasioni diverse. Avevamo un grande rispetto per papà e per la sua professione, che abbiamo “vissuto” fin da piccoli, dalla sala di doppiaggio alla dimensione del teatro, con gli applausi del pubblico adorante. Era molto facile, quindi, mitizzarlo, metterlo su un piedistallo con la conseguenza che poteva diventare difficile avere dei rapporti ‘’normali’’ padre-figli. Lui, conscio di questo, si prendeva dei momenti per staccare la spina, ti portava via, proprio per ritrovare quel rapporto.
Mi ricordo, ad esempio, di quando, appena presa la patente, mi comprò la mia prima macchina, una Citroën 2 cv. Andammo a prenderla in Puglia e lui mi fece guidare per tutto il tragitto fino a Roma; mi stava vicino, mi dava fiducia, e quando capì che ero più sicuro, mi lasciò fare. Vivevamo poco la dimensione della casa; la sera si stava a teatro, il giorno in doppiaggio; sapevamo solo che la mattina dovevamo fare piano a prepararci per andare a scuola perché papà dormiva. Fuori casa, invece, era una giostra continua. Riusciva però ad essere presente, nonostante il suo lavoro, in tutti i momenti importanti, speciali della nostra vita. Ad esempio, venne all’arena di Verona quando feci la regia di Notre Dame de Paris, arrivando venti minuti prima dello spettacolo. Anche quando disputai la finale dei campionati italiani di atletica leggera a Firenze, me lo ritrovai sul traguardo, non sapevo neanche che sarebbe venuto…
Dopo l’incontro con il Bagaglino da piccolissimo, come è continuata la tua formazione?
Quando avevo vent’anni, arrivò una bella opportunità: Pasqualino De Santis – direttore della fotografia, vincitore del Premio Oscar per Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli – che era un grande amico di famiglia, cercava un nuovo assistente. Decisi di seguire questa strada, e lì scattò una gelosia malcelata da parte di papà. Mi aveva sempre incoraggiato a vivere nuove esperienze, ma in questo caso percepii una sua grande sofferenza nel lasciarmi andare. Così, partii con De Santis per un paio d’anni, girando il mondo, volevo seguire la grande passione che avevo per la fotografia. Insomma, ho coltivato contemporaneamente tutti gli aspetti dello spettacolo che mi incuriosivano, doppiaggio, fotografia, e poi teatro e vita di set. Fare spettacolo ti permette di creare una sorta di sospensione della realtà; lì per lì, quindi, non soffri della mancanza degli affetti, perché sai che ci sono, e vivi appieno il tuo sogno ad occhi aperti. Un giorno, poi, mi sono distaccato dalla realtà del Bagaglino per cercare la mia vera autonomia. Fu lo stesso Pingitore ad affidarmi un suo soggetto, da cui scrissi la sceneggiatura, che poi diventò il mio film Ladri si diventa (1998). Avevo circa trent’anni, e quel film fu l’occasione per lavorare con tutti gli attori che avevo frequentato in teatro. Volli togliere a tutti la maschera che indossavano abitualmente e si ritrovarono ad interpretare personaggi completamente diversi dai loro standard. Pippo Franco era un boss della mafia che solo a vederlo ti metteva paura, Leo Gullotta era un direttore di banca. E papà si mise al servizio in maniera incredibile anche in questa occasione.
Uno dei miei lavori che ricordo con vera gioia è stato quando fui chiamato da David Zard, grande produttore e discografico di quel periodo, che mi affidò la regia di Notre Dame de Paris, una serata leggendaria all’Arena di Verona, andata in onda in diretta su Rai 1 nel 2003. In Notre-Dame mi occupavo anche della regia dei megaschermi, il nostro obiettivo era avvicinare, in questi grandi spazi, il pubblico all’emozione di chi sta sul palco, di chi si sta esibendo. Dopo Notre Dame, ho lavorato a contatto con alcuni grandi della musica italiana: con Lucio Dalla abbiamo messo in scena la Tosca, con la PFM lo spettacolo Dracula in love, con Gianna Nannini abbiamo creato un progetto musicale sul personaggio dantesco di Pia De’ Tolomei. In tutti i miei lavori sono sempre stato mosso da questa passione innata e da un grande rispetto che ho sempre avuto per questo mondo.
Come hai vissuto il fatto di lavorare a contatto con gente di spettacolo? Che rapporto hai instaurato con gli attori che hai diretto?
Ognuno ti dà qualcosa, perché ognuno è diverso nel suo modo di esprimersi e di lavorare. Andando avanti con il tempo mi sono ritrovato in avventure sempre più folli, sempre in nome del mio grande amore per tutti gli aspetti di questo lavoro. Papà Oreste mi ha insegnato il rispetto per lo spettacolo, attori come Martufello e Alex Partexano mi hanno insegnato tante altre cose importanti. Diciamo che la mia formazione familiare e professionale fin da bambino mi ha permesso di conoscere, di avere la chiave per aprire i cuori degli attori.
Com’è oggi il mondo dello spettacolo, e come vivi il tuo lavoro in questa nuova realtà?
Oggi è cambiato tutto perché è non ci sono più figure di riferimento come quella del produttore, nel cinema e nella televisione. Tutto è in un certo senso catalogato, devi fare tutto da te. Questo ha portato anche alla genesi di nuove figure professionali come quella del film maker. I mezzi di produzione sono ormai economicamente abbordabili dalla maggior parte delle persone, e la nuova tecnologia ha aiutato moltissimo i giovani, ma anche noi della vecchia scuola. In questo periodo, ad esempio, sto girando dei docufilm molto divertenti, che spaziano tra vari aspetti del mondo dello spettacolo. Un film sulla storia e il cinema di Mauro Bolognini assieme a sua figlia Carlotta, ho fatto un docufilm uscito adesso su Lettere Caffè, un locale storico di Trastevere, il primo caffè letterario a Roma, e sto finendo un progetto su Ernesto Bassignano. Ciò che mi diverte del mio lavoro è scoprire cose sempre nuove, a voler conoscere e approfondire ciò che mi piace. Il vero motore del mio modo di lavorare è la mia curiosità. Anche la pandemia è stato un momento cruciale, in cui ci siamo rimboccati le maniche girando piccoli progetti per non soccombere a quel periodo.
Cosa consiglieresti ai giovani di oggi che vogliono affacciarsi a questo mondo?
Non è facile rispondere a questa domanda. Per lavorare in questo mondo devi avere una passione senza confini, un fuoco dentro che devi alimentare e che ti porta a fare di tutto per andare avanti in questo percorso. Quello dello spettacolo è un lavoro meraviglioso ma anche maledetto, in cui per sopravvivere, oggi più che mai, è necessario saper fare tutto. Io, come ti dicevo, ho avuto la fortuna di cominciare fin da piccolo a vivere questo ambiente a tutto tondo: ho cominciato portando i caffè sul set, poi passo dopo passo sono arrivato ad essere aiuto-regista e alla fine mi sono seduto sulla poltrona del regista. Ma contemporaneamente facevo il fonico, lavoravo in radio, scrivevo come autore, e in quell’epoca non c’era la tecnologia ad agevolare il nostro lavoro! Devi navigare in mille rivoli per raggiungere il fiume dello spettacolo. E spesso molti si fermano prima dell’obiettivo. È un mondo fatto di compromessi, il segreto è imparare a muoversi in questo dedalo. Senza perdere la motivazione.
Papà Oreste ha fatto di tutto nella sua vita professionale. Ma cosa lo appassionava veramente?
Quello che veramente appassionava mio padre era il teatro, e il contatto con il pubblico. Una dimensione che lo ha accompagnato e gli ha dato forza, fino alla fine. Era molto gentile, generoso, e si divertiva a fare sempre cose nuove. Nell’ultimo periodo, un colonnello dell’aeronautica in pensione, che aveva messo in piedi una piccola compagnia teatrale con attori non professionisti, lo chiamò per mettere in scena delle commedie. E lui, Oreste, mi chiamava e mi raccontava di questa nuova realtà; mi chiedevo come pensasse di preparare opere impegnative con una compagnia amatoriale. Papà scrisse per questa gruppo cose di una bellezza sconvolgente. L’opera principale si chiamava Blitz Molière; aveva riscritto tutta l’opera de ‘’Le donne sapienti’’ del drammaturgo francese in versi. Aveva una grande passione anche per l’insegnamento del teatro e con questa compagnia poteva stare tutto il tempo che voleva. Provavano in uno scantinato, una volta li andai a trovare, e colsi la grandezza di questo progetto. Alla fine delle prove, mi consegnò il manoscritto, una specie di passaggio del testimone. Poi abbiamo debuttato ed stato un momento indimenticabile. È un’opera che in futuro voglio assolutamente riportare in scena.
Mio padre mi ha insegnato il rispetto della parola e l’importanza dell’ascolto. Il suo amore per la parola era qualcosa che voleva trasmettere agli altri. Lo portava anche nel doppiaggio e nella costruzione dei dialoghi, come quelli per i film di Mel Brooks e Woody Allen. Era sempre molto attento al significato del testo originale, rispettoso della parola e dei concetti, con l’obiettivo di far arrivare al pubblico il messaggio originale. L’apoteosi la raggiunse ne ‘’Il grande dittatore’’ quando doppiò il monologo di Charlie Chaplin. Fu un ‘’buona la prima’’. Ascoltò una volta in cuffia l’originale, poi lo incise subito.
Caterina Frizzi
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