Fabrizio De André e la PFM: quella sera a cena

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Di Federica De Candia

“Forse in una vita precedente ero un pirata, e così una parte di me mi diceva di accettare“. Fabrizio De André lo sapeva che con quegli uomini capelloni, barbuti, non si trattava di giocare a carte in un vicolo malfamato di Genova. Ma di accettare un tour rock con loro. Che era pericolo e fascino insieme. Così nasce l’unione tra la band milanese, macchina da guerra, chiamata PFM, e il cantautore genovese allineato con gli ultimi; la batteria alla massima potenza di watt, dei primi, incontra la chitarra melodica, rime e purezza, del secondo.

Rock che vieni rock che vai

Si chiama “La Premiata Forneria Marconi”, per acronimo PFM. È un gruppo musicale che parte in piccolo stile, prima di diventare il gruppo rock italiano entrato nelle classifiche di vendita americane, con quel genere denominato “spaghetti rock”. Il clan de milan, composto da Franco Mussida alla chitarra, Franz Di Cioccio alla batteria, Giorgio Piazza al basso e Flavio Premoli all’organo, originariamente si faceva chiamare “Quelli” e poi “Krel”. Non componevano canzoni per se, ma erano richiesti musicisti di sala, e curavano arrangiamenti per artisti di grande importanza, come per MinaLucio Battisti. Anche per Fabrizio De André negli anni sessanta, collaborarono all’album “La buona novella”. Un disco anomalo, non etichettabile, che si apriva con “Laudate Dominum“, poi passava a un’Ave Maria, e si chiudeva con “Laudate hominem“. La rivoluzione dell’amore cristiano rivisitata dalle pagine dei Vangeli apocrifi. 

De André, era un solitario. Non sfidava i palcoscenici. Solo quattordici anni dopo l’uscita del suo primo disco del 1961, ha messo in scena il primo tour, nel 1975. Era accompagnato per l’occasione, da alcuni musicisti dei New Trolls (Giorgio Usai, Ricky Belloni, Gianni Belleno, Giorgio D’Adamo e dal tastierista Alberto Mompellio, già collaboratore di Franco Battiato ai suoi esordi). Tutti artisti che masticavano rock. Ma per Fabrizio, c’era una sola legge: prima vengono i testi, poi la musica e tutte le altre sovrastrutture. Solo così scriverà canzoni che sfuggono alle leggi di mercato, e alla retorica dei potenti. “Belìn mi dicono che è pericoloso e allora lo faccio”. Disse De André. Ai giganti di “Impressioni di settembre”, non si poteva dire no. Per comporre il testo di quel loro brano, Mariano Rapetti direttore e socio dell’etichetta della PFM, chiese a suo figlio Giulio, in arte Mogol, la preziosa mano.

Cena d’impressioni e anime salve

I signori del rock incontrarono a cena il poeta Faber. Nome che dette a Fabrizio De André l’amico Paolo Villaggio, con riferimento alla sua passione per i pastelli e le matite della Faber-Castell, oltre che per l’assonanza con il suo nome. Era il 1978, e De André accolse la PFM al completo a casa sua in Sardegna. Atmosfere e sapori, parole scaldate dal buon vino, e un’idea che rivendica Franz di Cioccio, il batterista della forneria: “Io sono quello che ha innescato tutto questo meccanismo“. Racconta Di Cioccio: “Fabrizio non voleva più cantare, voleva fare il contadino e l’allevatore, però il giorno prima era venuto a un nostro concerto ed era tutto gasato. Noi tornavamo da una tournée americana bellissima dove avevamo aperto i concerti dei Pink Floyd, di Santana e di tantissimi altri artisti, scoprendo pubblici diversi e vivendo da vicino le collaborazioni che gli artisti americani facevano fra loro”.

Il batterista con un po’ di coraggio, ma spavaldo come si parla a vecchi amici, propose di portare in concerto le canzoni del cantautore. Ma rivestite di rock, arrangiate di sonorità conturbanti e forti. Come se Genova, con le sue “Ombre di facce, facce di marinai”, si vestisse d’improvviso da dark lady. Come se “Via del campo“, (scritta insieme al medico chirurgo prestato al pianoforte Enzo Jannacci e al premio Nobel Dario Fo, da una sua ricerca di musica del ‘500), si coprisse di sonorità punk.

Dai diamanti non nasce niente..

Negli Stati Uniti l’avevano già fatto Bob Dylan e The Band. Ma uno dei timori di De André era quello di essere sovrastato dalla potenza degli strumenti elettrici. Lui che si faceva bastare il suono della chitarra e poco altro. Le sue note e vibrazioni minimaliste, dovevano cambiare chiave rock. In molti scoraggiarono il cantautore, dicendogli che quei concerti sarebbero stati un errore. Preoccupati della possibile contaminazione e commercializzazione dei suoi brani ricercati. “Ero tormentato da interrogativi sul mio ruolo, sul mio lavoro, sull’assenza di nuove motivazioni. E la PFM mi risolse il problema, dandomi una formidabile spinta verso il futuro. La tournée con loro è stata un’esperienza irripetibile perché si trattava di un gruppo affiatato con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l’hanno messo al mio servizio“. Queste le parole di De André, che iniziò le prime prove con la PFM, in un teatrino parrocchiale di Corsico. Il resto è storia.

Un solo tour, trentuno date tra il 21 dicembre 1978 e l’1 febbraio 1979. Un innesto nobile, tra musica da sintonizzatore e un intellettuale. Un sodalizio che nasce da una sfida; tra un maialino che girava sulla brace, e ambizioni ardenti. Che diedero vita a sonorità taglienti e raffinate. Con una chitarra elettrica e una acustica. Fabrizio De André & PFM – Il concerto ritrovato è un cofanetto di registrazioni rimasterizzate nato dal tour. Che riporta l’ascoltatore direttamente nel capoluogo ligure. E, più precisamente, al Padiglione C della Fiera di Genova dove si svolgeva il mercato ortofrutticolo, che il 3 gennaio 1979 ospitò uno dei concerti. “La canzone di Marinella“, “Andrea“, “La guerra di Piero“, “Amico fragile“, sono solo alcuni brani eseguiti nella nuova performance. E l’unione impossibile, oramai sdoganata, ispirò anche altri cantautori, come Guccini che realizzò un album dal vivo con i Nomadi nel 1979.

De André PFM chi ha contaminato

Si respirava un clima cameratesco dietro le quinte dei concerti. Perché Fabrizio De André era dotato di profonda ironia, che mescolava bene alla malinconia leggera, modulata dalla sua voce. Fu proprio lui che scrisse, parafrasando “Il pescatore“, accanto ad una foto scattata da Guido Harari proprio durante quel tour, che lo ritraeva letteralmente addormentato contro un termosifone per combattere il freddo dell’inverno e un’improvvisa stanchezza: “Col culo esposto a un radiatore, s’era assopito il cantautore…”. Il lato retro di una contaminazione.

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