Fast fashion sempre più veloce: una prospettiva sulla lavoro non etico e sulle pratiche che sostengono questo settore in crescita

Tutti i consumi di massa sono sempre più in aumento: si richiede maggior quantità a minor prezzo e l’industria della moda non fa eccezione. In tutto il mondo vengono consumati 80 miliardi di capi di abbigliamento ogni anno, con un’impennata del 400% rispetto a soli vent’anni fa.

Tuttavia, circa l’85% di questi tessuti finisce in una discarica ogni anno. Questo è un indicatore della domanda di massa da parte dei consumatori e del rapido turnover nelle tendenze che si sta verificando. Senza contare che la maggior parte dei capi indossati non durano nel tempo, spesso non vengono nemmeno indossati più di una manciata di volte. molto di questo atteggiamento verso il consumo può essere in gran parte attribuito all’ascesa della fast fashion, collegato alle micro-tendenze della moda contemporanea e alla manodopera a basso costo (figlia dello sfruttamento) che rende tutto questo possibile.

Due parole sul Fast Fashion

La moda non è sempre stata così distruttiva come industria. Lo shopping, prima dell’ascesa della società di massa, era un evento occasionale. Si cambiava parte del guardaroba magari un paio di volte all’anno, quando le stagioni cambiavano o quando si consumava un abito. Con la massificazione della società i vestiti sono diventati più economici, i cicli di tendenza hanno accelerato e lo shopping è quindi diventato letteralmente un hobby settimanale per molti.

Fast fashion” è una locuzione che vuole definire la rapida produzione di abbigliamento che sacrifica la qualità per la quantità. Prima della metà del 1900 c’erano generalmente 4 stagioni di moda, una per ogni stagione dell’anno. Ora invece aziende di fast fashion come H&M o Zara o Shein creano 52 “micro-stagioni” all’anno. Facendo due conti parliamo di una micro-stagione a settimana. Questo nuovo modello ha creato una massiccia domanda di abbigliamento, che seguiva a ruota la promisquità di offerta.

L’incremento del fast fashion ha portato alla creazione di circa 53 milioni di tonnellate di abbigliamento all’anno: una quantità mastodontica! E non parliamo solo delle quantità ma anche dei prezzi. Perchè la questione più spinosa è questa: al fine di sostenere un tale livello di produzione a un costo che consenta al consumatore di acquistare abbigliamento in grandi quantità, c’è bisogno di specifiche manovre economiche. Quindi molte aziende di fast fashion hanno cercato modi nuovi per ridurre i costi nella catena di approvvigionamento. Al fine di raggiungere questo obiettivo, le aziende hanno iniziato a portare la loro produzione nei paesi in via di sviluppo. Questo significa letteralmente sfruttare i costi di manodopera più economici e meno regolamentati. Le micro-stagioni e il micro-trending incoraggiano la maggior parte delle aziende di fast fashion a impegnarsi in pratiche di lavoro non etiche al fine di creare un elevato volume di abbigliamento a basso costo.

Ciò che non sappiamo non può farci male

Tutti gli elementi del fast fashion hanno un impatto negativo sul pianeta e sulle persone coinvolte nella produzione di abbigliamento. L’industria del fast fashion impiega circa 75 milioni di operai nel pianeta. Di questi lavoratori si stima che meno del 2% riesce ad arrivare ad un salario sufficiente alla sussistenza. Chiaramente questo porta i lavoratori a vivere al di sotto della soglia di povertà.

Il Parlamento europeo ha persino descritto le condizioni degli operai delle fabbriche in Asia come “lavoro schiavo”. Molti lavoratori tessili lavorano fino a 16 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. L’industria tessile utilizza anche il lavoro minorile, in particolare perché è spesso poco qualificata, quindi i bambini possono essere sfruttati in giovane età. Uno dei motivi principali per cui le aziende di moda sono così desiderose di portare le loro filiali in paesi come Vietnam, India e Bangladesh è la mancanza di supervisione che si verifica durante l’effettiva produzione tessile. Molti marchi scelgono di avere un controllo minimo su ogni fase della catena di approvvigionamento per evitare di esporsi a enormi responsabilità legali. I marchi consentono alle loro filiali di rimanere in gran parte non regolamentate perché li assolve dalla responsabilità per le pratiche non etiche utilizzate per produrre i loro capi di abbigliamento a costi così bassi. Tuttavia, sta diventando sempre più difficile per i marchi chiudere un occhio sullo sfruttamento della loro forza lavoro poiché viene portato sempre più nella sfera pubblica, come esemplificato nel 2019 quando migliaia di lavoratori tessili in Bangladesh hanno scioperato per i loro bassi salari attirando l’attenzione internazionale (come scritto nel Guardian).

Fast Fashion e Ambiente

Ma non sono solo questi, purtroppo, i problemi che riguardano questa tendenza socio-economica. Non dimentichiamo che nel fast fashion gli effetti collaterali sull’ambiente sono enormi: le fibre chimiche, come il poliestere, sono spesso utilizzate nella produzione. Questi elementi sono sicuramente dannosi per l’ambiente, perché queste fibre sono fatte di petrolio greggio, che emette quantità significative di CO2 durante la produzione. Ma non finisce qui: anche le sostanze chimiche sono responsabili dell’inquinamento delle acque. Quando i vestiti vengono lavati in lavatrice, queste piccole fibre vengono rilasciate negli oceani come microplastiche in gran numero. Si stima (secondo il Parlamento Europeo) che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura, e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari.

Si calcola anche che l’industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona. Questo significa che i prodotti tessili consumati nell’UE hanno generato emissioni di gas serra pari a 121 milioni di tonnellate.

Lo Slow Fashion

Fast Fashion e Slow Fashion sono due concetti agli antipodi. L’obiettivo del Fast Fashion è quello di produrre (e vendere) quanti più articoli possibili nel minor tempo possibile al fine di realizzare il maggior profitto possibile; in genere con poca o nessuna enfasi sugli aspetti ambientali o sui diritti umani. Slow Fashion cerca di contrastare questi aspetti e di produrre moda in modo equo, in modo da ridurre i danni all’ambiente e trattare i lavoratori in modo equo.

Lo Slow Fashion descrive un approccio sostenibile e consapevole alla produzione e al consumo di moda. Gli indumenti sono per lo più realizzati con materiali ecocompatibili o addirittura tessuti riciclati. I vestiti sono in genere più resistenti e di qualità superiore. L’attenzione è rivolta anche alla produzione rispettosa dell’ambiente. Quindi attribuisce importanza ai materiali di alta qualità e alla produzione rispettosa dell’ambiente. Gli articoli Slow Fashion sono solitamente realizzati con fibre naturali, come il cotone. Queste fibre sono biodegradabili e quindi non inquinano fiumi e mari. Inoltre, i sistemi idrici chiusi vengono spesso utilizzati nella produzione in modo che l’acqua venga riutilizzata e i colori non entrino nelle acque reflue. La produzione viene spesso effettuata con produttori locali per accorciare le catene di approvvigionamento. Questi partner di produzione locali (tipicamente situati nei paesi sviluppati) offrono salari e condizioni di lavoro significativamente migliori per i loro dipendenti rispetto alle fabbriche nei paesi in via di sviluppo.

Ogni persona è responsabile delle proprie azioni e non c’è modo migliore per comprenderle se non informandosi. Diventa quindi fondamentale sapere cosa sono questi due approcci alla moda e perché è importante volgere il consumo verso lo slow fashion. Per far sì che ognuno sia informato occorre avere pazienza e mettere in atto un’educazione al cambiamento, che per forza di cose risulterà essere lenta. Il futuro della terra è nelle nostre mani e soprattutto nelle nostre azioni. Non si può più far finta di non sapere e di non conoscere. È arrivato il momento di modificare l’oscillazione del pendolo, andare più piano per arrivare più lontano