Enzo Ferrari è ossessionato. Ossessionato dalle corse, dalla sua creatura e dal successo. Però, come dice lui stesso, vende macchine per gareggiare, non come Maserati, suo rivale, che gareggia per vendere. E il fulcro dell’ultima fatica di Michael Mann è proprio in questa rivalità e in questa ossessione quasi morbosa per la competizione. Il tutto interfacciato con i tormenti di uomo perseguitato dai fantasmi del suo passato. Dal figlio Dino morto troppo giovane, fino agli amici a bordo delle sue Ferrari. Ma non basta decisamente per raccontare un uomo così sfaccettato. Soprattutto se lo si fa attraverso un film così scialbo e privo di totale mordente narrativo. E fa specie perché non parliamo di un regista qualsiasi, ma di Michael Mann, uno dei maestri americani e un uomo ossessionato, proprio come il suo protagonista, dalla perfezione. Ferrari è un film tutt’altro che perfetto, anzi. Sembra di vedere un film girato e scritto senza nessuna voglia solo in attesa di un ritorno verso progetti più personali e autoriali. E Mann ha inseguito questa pellicola per vent’anni, anche se così non sembra.
Ferrari: uomo e industriale
il film di Mann ha due anime parallele. C’è il comparto narrativo dell’Enzo Ferrari uomo, che si divide tra due donne. La moglie Laura, da cui ha avuto un figlio morto l’anno prima, e l’amante Lina, conosciuta durante la guerra, da cui ha un bambino tenuto nascosto per anni. A stento riesce a conciliare le due vite che finiranno, per forza di cose, con il collassare su sé stesse. L’altra anima che ci viene mostrata è quella dell’industriale. L’azienda Ferrari è a rischio bancarotta e l’unico modo per salvarla è attraverso l’investimento di qualcuno esterno alla famiglia. Enzo decide quindi di puntare tutto ciò che ha nella Mille Miglia, la famosa corsa che va da Brescia a Roma per 1600 chilometri. Attraverso un’alternanza tra i due mondi davvero scolastica, il film salta da un mondo all’altro senza una vera continuità. Un momento ci mostra il rapporto burrascoso che Enzo Ferrari ha con le donne (moglie e madre su tutte) e in quello subito dopo l’ossessione per le corse. La pellicola sembra voler mettere in gioco entrambi i mondi senza mai affrontarli davvero. Racconta poco di entrambe le parti e lo fa in mondo scialbo. I personaggi non hanno tensione o profondità e, quando provano a trovarla, sono costretti in una gabbia fatta di grandi spiegoni, dichiarate intenzioni e cliché. Laura, interpretata da Penelope Cruz, è relegata solo al ruolo della moglie disperata per la morte del figlio e rancorosa nei confronti del marito. Linda (Shailene Woodley) è l’amante che se ne sta buona per anni nel casolare sperduto in campagna, accennando solo ogni tanto la volontà di far avere il cognome Ferrari al figlio. E lo stesso Enzo è un personaggio troppo piatto e monolitico che, per quanto fantastico possa essere Adam Driver come attore, poco può con questo materiale di partenza.
Un self made man
L’idea di provare a raccontare un uomo così grande come Enzo Ferrari nell’arco di un solo anno avrebbe avuto più senso se si fosse scelto tra uno solo dei due mondi da mostrare e raccontare. Invece nella prima parte di film domina l’uomo, nella seconda l’imprenditore. E il racconto diventa americanizzato, un self made man a stelle e strisce che poco cozza con l’ambiente italiano del ’56. House of Gucci probabilmente non ha insegnato nulla, invece, per quanto riguarda la lingua. Vedere attori come Adam Driver, Penelope Cruz o Patrick Dempsey parlare inglese con un forzato accento italiano e le comparse che li circondano rispondere in perfetto italiano rompe qualsiasi flebile tensione drammaturgica potesse esserci. Tutto ciò fa specie se si pensa che sia Mann dietro alla macchina da presa di questa pellicola. Parliamo del regista di Heat, Manhunter e Strade Violente. Enzo e La Ferrari vengono messi in campo come una religione per i modenesi, come nella scena dentro la chiesa. Ma di certo non basta per accendere una flebile fede nello spettatore.
Alessandro Libianchi
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