I film scritti dai fratelli D’Innocenzo si riflettono perfettamente in una frase di Alice Munro, scrittrice Premio Nobel per la letteratura. Nel racconto Fra poco, contenuto nella raccolta In fuga lei scrive: “Perchè sono le cose che succedono a casa, quelle che cerchi di proteggere, meglio che puoi, più a lungo che puoi.” Ciò che, infatti, i giovani registi e sceneggiatori romani fanno sin dal loro ingresso nel mondo del cinema, è rivelare la dimensione familiare per ciò che è, anche e soprattutto nei suoi lati più inquietanti e veri.
La terra dell’abbastanza: un esordio necessario
Damiano e Fabio D’Innocenzo non avevano ancora trent’anni quando hanno presentato al Festival del Cinema di Berlino, nella sezione Panorama, La terra dell’abbastanza, il loro primo lungometraggio. Era il 2018 e forse lo stavamo aspettando già da anni. Ambientato a Roma, il film è il racconto di come possa essere facile assuefarsi al male anche per chi con la criminalità non ha mai avuto niente a che fare. Ma fino a che punto può spingersi chi inciampa, per caso, nelle dinamiche della malavita, che non è entità astratta bensì volti, carne ed ossa di uomini e donne? Mirko (Matteo Olivetti) e Manolo (Andrea Carpenzano) ci si imbattono per caso una notte, investendo casualmente un pentito che il clan di zona stava cercando per regolare i conti.
Così, prima Manolo spinto dal padre (Max Tortora) e successivamente anche Mirko, entrano nelle grazie del boss (Luca Zingaretti). Tutti sono inizialmente convinti che quella sia la via da percorrere per una vita migliore, fatta di soldi facili, rispetto e protezione. Ben presto, invece, si rivela per ciò che è: una spirale che li risucchia e fa sprofondare nell’abisso umanità e dignità. Qui non c’è nè moralità nè legalità; c’è dolore, sozzume: il sesso del vecchio pusher con la ragazzina, la festa di compleanno rovinata da Mirko, il traffico di persone. Ma c’è anche la capacità dei D’Innocenzo di saperlo raccontare senza farsi addomesticare dal cinema edulcorante che esplora, ma restando in superficie sulle brutture di certe verità.
Favolacce: quello che (non) accade nelle migliori famiglie
Il secondo lungometraggio di Damiano e Fabio D’Innocenzo è stato presentato in concorso alla Berlinale nel 2020, dove si è aggiudicato l‘Orso d’argento per la Miglior sceneggiatura, ed ha vinto anche 5 Nastri d’Argento, tra cui Miglior film. La pellicola è ambientata nella periferia romana che è in realtà un non-luogo: potremmo essere ovunque. In questo spicchio di mondo familiare, gli adulti sono autoritari, mai autorevoli; i bambini stanno alle regole, ma non si arrendono. La rabbia è il soffio vitale che genera e alimenta i rapporti fino a che non vanno in tilt. Da lì, la disperazione chiama a sè la fine.
Favolacce. Un po’ favole, un po’ parolacce. Non colori, ma uno che li annulla tutti: il nero. Non c’è alcun vivere, solo malvivere. I fratelli D’Innocenzo ci rimettono davanti agli occhi una realtà che è solo apparentemente normale, è invece scenario di una favola noir, dove silente lavora e cova il sadismo dei grandi, la rabbia dei piccoli diligenti ma solo per disperazione. Se la prima terra dei D’Innocenzo era dell’abbastanza, questa è di nessuno. Resta almeno la speranza? Ai posteri l’ardua sentenza.
Fratelli D’Innocenzo: con America Latina la discesa nella follia
Il terzo lungometraggio dei gemelli D’Innocenzo, America Latina, è stato presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia nel 2021. L’assoluto protagonista è Elio Germano, già perfettamente calzante per la sceneggiatura del precedente Favolacce. Lui è Massimo Sisti, dentista della Latina bene che vive una vita come tante, tra routine e birrette con l’amico di sempre, tra benessere e quiete. Condotta di vita che viene alterata improvvisamente, diventando un incubo, quando un giorno Massimo scende in cantina e scopre il suo inconscio, diventando preda dei suoi tormenti.
«America Latina è una fotografia impietosa del maschio, senza voler dare giudizi sul personaggio – ha spiegato Damiano D’Innocenzo – è la mascolinità tossica, di cui siamo vittime e carnefici al tempo stesso, a venir fuori». Massimo è un personaggio alienato, solo, estremamente sensibile, che deve nascondere un enorme segreto. Il dovere morale impostogli dal ruolo che ha in famiglia, di dover tenere lontani i problemi, è anche la sua condanna. E se in qualche modo può sfogare, sarà nell’allucinazione, nel delirio e nell’autodistruzione.
In questi primi tre lungometraggi che i gemelli romani hanno scritto e diretto, la famiglia è stato il campo di battaglia prediletto. Ci hanno aiutato a ricordare, anche turbandoci, che la bolla più protettiva e soffocante, in cui capitiamo al principio del viaggio, non prevede vie di fuga. Dai legami di sangue non si scappa, e chi meglio di due gemelli lo sa?
Giorgia Lanciotti
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