In occasione dell’anniversario della sua assurda morte, abbiamo deciso di dedicare questa decima puntata di StoryLine a George Floyd. Per farlo ci siamo ispirati a fatti realmente accaduti a Roma e al concomitante anniversario con la sanguinosa battaglia di Little Big Horn.
George Floyd, l’inizio
George Custer era disteso accanto al suo cavallo e non riusciva a respirare a causa di una pallottola nel costato. Tuttavia sognava di alzarsi in piedi come se fosse invulnerabile per spazzare via quelli che lui chiamava miserabili indiani. George Floyd era atterra schiacciato dal ginocchio di un poliziotto bianco. “Non riesco a respirare” disse ma chiunque non poteva schiacciato dal peso del pregiudizio e dell’arroganza perché si sa il nero incita all’odio. Giorgio giocava sul tappeto del soggiorno con i soldatini e gli indiani regalatigli dal nonno. Non riusciva a capire perché in tv tutti parlassero di un criminale nero morto soffocato e non del suo grande eroe George Armstrong Custer che aveva tenuto testa a migliaia di uomini prima di morire. E Giorgio a 8 anni avrebbe voluto essere nel vecchio e polveroso West e non in quella tiepida estate romana dove gli sembrava non succedesse nulla. Nemmeno i mesi precedenti passati a casa lo avevano scosso ma piuttosto lo avevano semplicemente annoiato spingendolo a cercare rifugio nel mondo dorato dei suoi cowboy.
Il nome della strada
George Custer continuava a sparare all’impazzata disteso dietro il suo cavallo col poco fiato che gli restava mentre pensava che prima o poi i suoi sarebbero accorsi a salvarlo. Anzi si sentiva già sul petto una medaglia per aver disperso i pericolosi selvaggi e conquistato altra terra per i bianchi. Si vedeva già tenere il suo discorso in tournèe lungo tutti gli Stati Uniti. “Non posso respirare” continuava a ripetere George Floyd mentre il tempo lentamente scorreva e la vita si assottigliava. S’immaginava già i titoli dei giornali che lo avrebbero dipinto come un violento perché chi avrebbe creduto ad un nero fermato dalla polizia bianca. S’immaginava già i bambini delle elementari prendersela con la piccola Gianna che non avrebbe mai voluto assistesse a questo. Quella stessa piccola che aveva significato una nuova vita dopo il carcere. Giorgio era intento a giocare muovendo ossessivamente il suo generale Custer quando un urlo richiamò la sua attenzione. “Venite a vedere”, diceva il nonno, “hanno chiamato via dell’Amba Aradam, via George Floyd”. Giorgio si affacciò dalla finestra del primo piano del suo appartamento e notò che sulla targa della strada avevano posto un nuovo cartello con il nuovo nome. A questo punto si stava sempre di più chiedendo chi fosse questo Floyd. Poi un soldatino che aveva tra le mani lo distrasse e lo portò di nuovo a sognare pistole e cowboy.
Accendere una vita
George Custer soffocava ed in lui cresceva sempre di più la paura di finire nelle mani degli indiani. Dei selvaggi era certo che fossero maestri di tortura e che lo avessero ucciso lentamente per fargli pagare per tutte le vite che aveva tolto. Cosi chiamò il suo attendente e quando ormai la fine fu prossima si fece sparare un colpo alla nuca per non cadere in mano nemica. Il povero Floyd era giunto al capolinea mentre stranamente si ricordava di provare a fare quello che gli avevano insegnato da piccolo, chiedere sempre per favore. Così disse, “per favore amico, non riesco a respirare”. La riposta fu solo un silenzio crescente mentre un ginocchio continuava a premere sul collo fino all’inesorabile fine. Giorgio si era stancato di giocare e si era avvicinato alla tv. La curiosità lo aveva distolto dal suo mondo dorato perché voleva sapere a tutti costi chi era questo Floyd e perché tutti parlassero di lui e non di un eroe come Custer. “Vedi”, gli disse il nonno, “si è eroi perché si accendono vite e non perché si tolgono. Ecco perché oggi siamo un po’ tutti George Floyd”.