Durante il processo, lei è contro 51 uomini, tutti complici del suo ex compagno: Gisele Pelicot racconta gli anni di abusi subiti a sua insaputa e la sua scelta di rendere pubblica la sua storia.

Nel tribunale di Avignone, Gisele Pelicot, 71 anni, racconta i suoi abusi, offrendo una testimonianza toccante in uno dei processi più inquietanti in Francia. Gli imputati, 51 uomini, sono accusati di averla stuprata con la complicità del marito, Dominique Pélicot. Il caso ha scioccato il paese per la gravità delle accuse e il coraggio di Gisèle, che ha deciso di non mantenere l’anonimato affinché la sua storia potesse aiutare altre vittime.

Gisele Pelicot, drogata e costretta ad abusi a sua insaputa per dieci lunghissimi anni

Nel novembre del 2020, Gisele Pelicot accompagnò suo marito Dominique al commissariato. Secondo lei, che era tranquilla come in un giorno qualsiasi, lo stava accompagnando per una questione che credeva fosse “di poco conto”. Ma non era affatto “di poco conto” e già questo avrebbe dovuto essere un grottesco campanello d’allarme. Infatti l’uomo era accusato di aver filmato sotto le gonne di alcune donne in un centro commerciale. Oltretutto, si trattava di un episodio per il quale era già stato multato nel 2010, ma che lei ignorava completamente.

Quella che pensava fosse un’accusa isolata si rivelò invece l’inizio di un incubo. Durante l’interrogatorio, la polizia le mostrò una foto sconvolgente: c’era lei, nella sua camera da letto, con un uomo che non aveva mai visto. Poi l’orrore. Ecco una seconda immagine in cui lo stesso uomo la stava stuprando. Fu proprio in quel momento che scoprì che suo marito, per dieci anni, l’aveva drogata con farmaci somministrati di nascosto, permettendo a decine di uomini contattati online di abusare di lei mentre era incosciente. Le forze dell’ordine le rivelarono l’esistenza di circa 20mila video e fotografie, tutte registrate e catalogate con precisione da Dominique sul suo computer. «Disgustata» e incredula, Gisèle si chiese come fosse possibile che tutto questo fosse accaduto senza che lei se ne rendesse conto, nonostante pensasse di avere «tutto quello che ci serviva per essere felici».

Non è solo colpa del marito, a farlo c’erano anche decine di altri uomini

Nel processo in corso, non è solo il marito Dominique Pélicot a essere sotto accusa. La violenza subita da Gisèle è stata perpetrata da 51 uomini, che sapevano esattamente cosa stavano facendo. Gisèle ha respinto con forza l’idea che questi uomini fossero stati semplicemente “manipolati” dal marito, una tesi sostenuta da alcuni difensori che tentano di scaricare tutta la colpa su Dominique. Ha dichiarato in aula:

«Non mi hanno violentata con una pistola puntata alla testa»

, chiarendo che quegli uomini non agivano sotto costrizione, ma con piena consapevolezza. Gisèle ha sottolineato come nessuno di loro si sia mai preoccupato di allertare le autorità, ribadendo:

«Anche solo Una telefonata avrebbe potuto salvarmi la vita. Nessuno di loro l’ha fatta».

L’idea che Dominique Pélicot sia l’unico “mostro” in questa storia è fuorviante e rischia di ridurre una vicenda di violenza sistemica a un singolo caso eccezionale. Questo processo non riguarda un’unica figura deviante, ma una rete di uomini che hanno partecipato attivamente allo stupro, dimostrando quanto la violenza contro le donne sia radicata e normalizzata nella nostra società. La retorica del “mostro” crea l’illusione che queste vicende siano isolate e straordinarie, quando invece rappresentano un’espressione ordinaria del patriarcato. Questa ideologia pervasiva, che permette agli uomini di abusare delle donne con apparente impunità, non può essere ridotta alla colpevolezza di un singolo individuo, ma va smantellata in tutte le sue forme.

Gisele appare forte, ma dentro si sente «un campo in rovina»

Per anni, Gisele Pelicot aveva sofferto di gravi problemi di salute: frequenti vuoti di memoria e disturbi ginecologici che non riusciva a spiegare. Aveva persino fatto una TAC, temendo di soffrire di Alzheimer o di avere un tumore, ma nessuna diagnosi aveva mai chiarito il motivo di quei sintomi. Si fosse degnato Dominique, in tutti questi anni, di dire qualcosa. Vedeva sua moglie preoccupata e continuava a pubblicare annunci online in cui altri uomini potessero abusarla mentre era sedata, abusando di lei anche sotto il profilo della sua salute. Il tutto con una tranquillità inquietante. Infatti, s dopo la scoperta ha capito che quei problemi erano causati dai farmaci sedativi somministrati dal marito per renderla incosciente durante gli stupri.

Descrivendo quegli anni, ha parlato di «blackout totali» che la terrorizzavano e che l’avevano portata a smettere di guidare. Nonostante tutto, Gisèle ha affrontato il processo con una forza sorprendente. Solo a maggio 2024, su consiglio del suo avvocato, ha trovato il coraggio di guardare alcuni dei video che documentavano gli abusi per prepararsi a testimoniare in aula. Ha raccontato di come esternamente possa sembrare forte, ma dentro di sé si sente «un campo in rovina», paragonando la sua lotta a quella di «un pugile che cade e si rialza», consapevole che ricostruire la propria vita sarà un processo lungo e doloroso.

Gisele ci mette la faccia, lo fa per tutte le donne

Nonostante la legge francese le permettesse di mantenere l’anonimato e di chiedere un processo a porte chiuse, Gisele Pelicot ha scelto di rendere pubblica la sua storia. Lo ha fatto con una motivazione precisa:

«È importante parlare di questo flagello. Lo faccio a nome di tutte le donne che vi sono sottoposte»

La sua decisione è stata motivata dal desiderio di sensibilizzare l’opinione pubblica e di dare forza ad altre donne vittime di violenza sessuale. Sperava che la sua testimonianza potesse aiutare anche solo una persona, magari «una donna che si sveglia senza memoria» e sente in sè serpeggiare inquietanti sospetti.

Forse un’altra donna, ascoltando la sua storia, potrebbe riconoscere segnali simili nella propria vita. Perchè ci sarà certamente un’altra donna, purtroppo. Gisèle ha scelto di affrontare la stampa usando ancora il cognome del marito, nonostante il loro divorzio. Spiega che lo farà fino alla conclusione del processo, per poi tornare al suo cognome da nubile. Probabilmente è solo così che, in un momento storico in cui la stampa vive di sensazionalismi e semplificazioni più che informazione, potrà far sentire la sua voce rispetto al caso. Si spera solo che venga affrontato nel modo giusto dai giornalisti. Si spera.

Grazie al sostegno dei suoi tre figli, sette nipoti, amici e uno psichiatra, Gisele Pelicot continua a lottare per riprendere in mano la sua vita, pur ammettendo di non sapere ancora come riuscirà a farlo.

Gisele Pelicot e gli abusi non sono un semplice “orrore”, sono un fenomeno specifico che ha un nome, ed è “Patriarcato”

La piramide della violenza è più radicata di quanto i media portino generalmente alla luce. Gli abusi subiti da Gisele Pelicot non possono essere ridotti a un caso isolato o a un semplice “orrore“. Quello che è accaduto è espressione di un sistema più ampio e radicato, che ha un nome preciso: Patriarcato. Parliamo di uomini dai 20 agli 80 anni: disoccupati, manager, poliziotti, artisti. Non c’è un “profilo” e il motivo è evidente. Traslando la riflessione celeberrima che Hannah Arendt espone nella sua analisi sulla “banalità del male”, in questo caso non siamo di fronte a mostri eccezionali. Si tratta di uomini comuni, che però hanno partecipato a una violenza efferata, tuttavia strutturata e normalizzata.

Questi uomini, contattati dal marito di Gisèle, entravano in casa, vedevano chiaramente una donna visibilmente sedata – alcuni di loro la desideravano proprio così – e abusavano di lei senza alcuna esitazione. Non erano solo spettatori passivi o ignari, ma complici consapevoli.

Dopo gli stupri, tornavano alle loro vite ordinarie. Rientravano nelle loro case, dai loro figli, dai loro animali domestici, o andavano al lavoro come se nulla fosse accaduto. Proseguivano con la loro routine quotidiana, tornando a frequentare i pub con gli amici o a cenare in famiglia, con la serenità di chi ha appena svolto un normale impegno. Gli abusi subiti da Gisèle erano calendarizzati come fossero appuntamenti dal dentista: mezz’ora per violentarla, e poi il ritorno a una vita di apparente normalità. Questo è il vero orrore: la violenza è stata trattata come un evento ordinario, parte della loro vita, senza rimorsi o ripercussioni.

Gisele Pelicot e i suoi abusi sono solo la punta della “piramide della violenza”, tu sai cos’è? Perchè dovresti informarti

La teoria della “piramide della violenza” offre un quadro utile per comprendere come gli atti di violenza sessuale siano il culmine di un sistema più vasto e strutturato di disuguaglianze e aggressioni. Immaginate una piramide: alla sua base ci sono le micro-aggressioni e le piccole violenze quotidiane, come commenti sessisti, battute inopportune e atteggiamenti discriminatori. Questi comportamenti, sebbene possano sembrare insignificanti o giustificabili, contribuiscono a mantenere un ambiente in cui le donne sono sistematicamente svalutate e trattate come oggetti. Incluse sono anche le soggettività queer, non binarie, non-cis: in questo articolo ci si concentra sui corpi delle donne cisgender per dare coerenza alla tragica storia di Gisele. Ma la piramide della violenza non tocca solo le donne cis, è tanto utile dirlo quanto evidente come fatto.

Man mano che ci si sposta verso la cima della piramide, le violenze diventano più gravi, ma in realtà restano ugualmente sistematiche. Le aggressioni verbali e psicologiche si sommano alle violenze fisiche e sessuali, culminando in crimini come lo stupro. Questo crescendo di violenza non è casuale, ma una diretta conseguenza di un clima culturale che accetta e minimizza le violenze più leggere, legittimandole come “normali” e quindi “inevitabili”.

Sei ancora sicuro che non serva essere femminista?

La cultura dello stupro, strettamente connessa a questa piramide, è l’insieme di norme e atteggiamenti sociali che minimizzano, giustificano o ignorano la violenza sulle donne. La separazione netta tra micro-aggressione e abuso non permette una visione di insieme in cui tutti questi fenomeni sono semplicemente legati dalla stessa matrice. È una cultura che normalizza l’idea che il corpo delle donne sia una terra di nessuno e che l’abuso possa essere accettato o addirittura previsto come parte del comportamento maschile. Questo ambiente favorisce il perpetuo ciclo di violenza, rendendo la violenza sessuale una possibilità concreta piuttosto che un’eccezione. E proprio così la vita di ogni donna diventa “un possibile incubo, ogni giorno”: prendere un notturno da sola o poarcheggiare lontano da casa diventa pericoloso, di uno spefico pericolo che è valido solo per donne e soggettività queer. Ma i nostri corpi non sono “terra di nessuno”, sono nostri. Questi corpi non sono “terra di nessuno” e sono ora “campi di battaglia” perchè noi abbiamo diritto a riprenderceli.

Il femminismo è la battaglia più necessaria in questo senso. La normalizzazione della violenza e la cultura dello stupro sono le fondamenta su cui si erge la piramide della violenza. Ignorare queste radici permette alla violenza sessuale di proliferare, trasformando atti aberranti in eventi ordinari. Per rompere questo ciclo, è essenziale riconoscere e affrontare non solo gli atti di abuso, ma anche le micro-aggressioni quotidiane e le norme culturali che le rendono possibili. La domanda, quindi, rimane cruciale: siamo davvero sicuri che non sia necessario essere femministi per contrastare un sistema che, nel suo insieme, alimenta e sostiene la violenza contro di noi?

Maria Paola Pizzonia