God of War Ragnarok Recensione | Quanto pesa un capolavoro? Termine usato e abusato, sono d’accordo, ma che calzava e calza a pennello su God of War, il capitolo del 2018. Da cui segue la domanda: quanto pesa un capolavoro, e… quanto pesa God of War?
Viene da chiederselo guardando a God of War Ragnarok, che quel peso lo porta sulle spalle per trenta ore e passa. Mentre io, che ne sto redigendo la recensione, percepisco la sua gravitas come fosse la mia. Altri, tanto nello scenario editoriale, quanto tra i fruitori hanno già trovato la loro risposta, etichettando anche Ragnarok come capolavoro. In effetti, che si parli di level design, di direzione artistica, di tecnicismi o di narrazione, God of War Ragnarok raddoppia la posta in gioco. Gli ambienti si ingrandiscono, i combattimenti sono più articolati e sfaccettati e tra collezionabili e missioni secondarie lo spettro della diluizione e dell’horror vacui finiscono per palesarsi sul fronte del gameplay, più che su quello della trama o della lore. Che anzi, si prendono i loro tempi e non hanno paura di esibirsi in assordanti silenzi carichi di significato.
God of War, è evidente, pesa e ha pesato più del previsto nella realizzazione di un sequel che non poteva che risultare “harder, better, faster, stronger”. Così, mentre Kratos invecchia e acquisisce saggezza, intanto che Atreus/Loki cresce e supera una tormentata adolescenza carica di ribellione, God of War Ragnarok può prendersi il suo titolo di capolavoro: narrativo, ludico, morale. Con ben più di qualche frase a effetto scritta per far lacrimare facili emozioni, questo è sicuro. Ma la coccarda su cui il titolo è stato scritto, “capolavoro”… nella sostanza complessiva, sembra pesare un po’ meno di quella del 2018. Che sia la maledizione del sequel, o una mia impressione, lo lascio decidere a voi nel testo che segue. Intanto, il dado è tratto.
Ci tengo a specificare che, nonostante siamo lontani dalla release, nel rispetto dell’amore che i fan manifestano per la trama e i colpi di scena che la contraddistinguono, non farò alcuno spoiler nel corso di questa recensione.
GOD OF WAR RAGNAROK RECENSIONE | TESTATO SU PS5
Disponibile anche su: PS4
VOTO: 8.8
+Trama elaborata e magnetica, personaggi cariamstici che vivono emozioni ed esprimono morali mai scontate
+Il combat sistem è più elegante e vario, sprona a sperimentare varie build diverse
+Artisticamente variegato più del predecessore, tecnicamente quasi ineccepibile…
+Boss / enemy design molto più vario e ispirato rispetto al capitolo del 2018
-…ma le animazioni di alcuni personaggi secondari sono meno realistiche rispetto al 2018.
-”Il troppo” (troppe missioni, troppi collezionabili, troppa diluizione) -non per tutti e non sempre- “stroppia”.
God of War Ragnarok Recensione, “fantasma” nel fuoco, padre nel gelo
L’evoluzione che ha vissuto Kratos nel post God of War 3 ha dell’incredibile. Il fu fantasma di Sparta sanguinario, inarrestabile e violento nel 2018 aveva costruito un castello di segreti e “non detti” intorno a sè, per proteggere la calma che pensava di aver ritrovato nelle regioni norrene. Invece, alla morte della sua nuova compagna il dolore della perdita aveva fatto crollare quel castello rivelando il vero destinatario della protezione di Kratos: suo figlio Atreus. Anch’egli, buon sangue non mente, da allora è cresciuto in fretta: forte e coraggioso, ma anche fin troppo impetuoso. Il giovane che nel 2018 era arrendevole, per quanto incauto, e bisognoso solo di un amore paterno mai sperimentato, in Ragnarok è diventato un adolescente tormentato dal bisogno di recuperare il tempo perso.
Atreus è smanioso, come tutti i giovani, di raggiungere un obiettivo le cui implicazioni profonde per sè e per chi lo circonda -e lo ama- non comprende appieno. Sa solo che deve raggiungerlo, che deve farlo in fretta e che è convinto sia la scelta giusta da fare a prescindere dal consiglio di chiunque. Compreso suo padre. Intanto, il Filbumwinter impazza per i nove regni: un inverno “magico” che precede il Ragnarok, l’apocalisse e la fine dei giochi per il Pantheon Norreno, i cui influssi sovvertono le leggi della natura e della magia. Con medesima forza i poteri di Atreus si agitano e smaniano per manifestarsi e rivelare ulteriori verità rimaste sepolte sotto la neve. Alimentando l’incendio nella sua anima.
Le divinità del luogo non perdono tempo: riconosciuto il valore di Kratos si apprestano a cercare di comprarlo, di fermare un possibile “ritorno del fantasma di Sparta”. Ma in questo contesto Kratos è quasi, per la prima volta nella sua vita, inerme e incapace di agire. Non sa come confrontarsi con la crescita di Atreus e dei suoi poteri, teme che quanto hanno scoperto al termine del loro viaggio a Jotunheim (sempre in GOW 2018) possa portare solo dolore al suo amato figlio. Così si sfoga con i nemici che lo contrastano: sempre meno convinto, dopo ogni avversario trafitto, che tornare a essere “il fantasma di Sparta” intriso di fiamme e armato di catene sia la soluzione. Lui, che si era rifugiato nella fantasia di poter “raffreddare” i suoi bollenti spiriti nel gelo nordico: per essere solo un padre amorevole.
Intorno al vorticare di emozioni genitoriali di Kratos, e alle domande senza risposta di Atreus, si muove un cast di personaggi più vasto, vario e motivato di quello che aveva partecipato al gioco del 2018. Alcuni sono più importanti ai fini della trama principale, come una straordinaria Freya dilaniata dal dolore della perdita di suo figlio, bisognosa di un riscatto per sé stessa che oramai nessuno potrà mai più donarle. Altri appaiono e scompaiono alla bisogna, per rispondere a specifiche necessità di gameplay, o in occasione di missioni secondarie così ben strutturate da non sfigurare di fronte alle principali.
In ogni caso, la loro presenza fa il paio con la maggior profondità con la quale sono trattati i protagonisti del primo capitolo, facendone scaturire un Geyser altissimo di emozioni, intrecci, relazioni. Tutte trovano completamento, più o meno frettolosamente, perchè God of War Ragnarok non intende lasciare niente e nessuno indietro. Ma è proprio in questa abbondanza apparentemente solo positiva che inizia a manifestarsi il difetto principale di God of War Ragnarok. Dal quale il capitolo del 2018, pur avendo corso il rischio, non era invece stato intaccato.
La violenza non è la risposta, ma…
Spostandoci dalla storia al gameplay, l’operazione messa in piedi dallo studio Santa Monica resta identica e votata all’espansione. Infatti, i combattimenti in God of War Ragnarok sono più intensi, più impegnativi, con nemici più differenziati e armati di moveset diversificati e più dinamici. In eguale misura, il pool di mosse in mano a Kratos e Atreus si è praticamente raddoppiato.
Oltre a possedere, fin dall’inizio dell’avventura, l’ascia e le Lame del Caos (tornate alla potenza base -non potenziate-, insieme all’arco di Atreus a causa della magia del Filbumwinter) Kratos può ora infondere di magia elementale le due armi. Congelando l’ascia, o dando fuoco alle sue Lame, lo spartano aumenta anzitutto i danni elementali inflitti ai nemici. Poi, avanzando lungo l’albero delle abilità di ciascun armamento, gli effetti di ghiaccio e di fuoco evolvono. Forniscono buff per Kratos o nerf per i suoi avversari. O anche a movenze più eleganti e complesse che colpiscono più nemici, infliggono più danni e fanno sembrare Kratos più… più. Basta che sia “più”?
Di nuovo, l’accrescimento cui avevo accennato nel paragrafo di questa recensione riguardo la trama fa capolino in God of War Ragnarok. Porta con sè benedizioni, certo, quali una scenograficità e una serie di coreografie più spettacolari che rendono i combattimenti molto più intrattenenti rispetto al 2018. Eppure, in egual misura tale accrescimento è foriero di una sensazione sgradevole. Soprattutto a chi nel 2018 aveva trovato respiro in un sistema di evoluzione, potenziamento e combattimento per Kratos e Atreus più leggibile e diretto. Di fatto, alla fine, potremmo chiederci come mai Kratos esorcizzi il bisogno di non assecondare più la sua violenza… con altra violenza. Ma non credo sia il caso di tirare in ballo l’onnipresente dissonanza ludonarrativa. Piuttosto, è il caso di chiedersi dove altro abbia portato il gioco quel succitato bisogno di “continua espansione”.
God of War Ragnarok Recensione, “Horror Vacui”
La verità, è che forse in quel di Santa Monica devono aver pensato che God of War Ragnarok dovesse essere “di più a ogni costo” rispetto a God of War del 2018. Purtroppo, il ragionamento non funziona sempre bene come nei casi della trama, o del gameplay e delle nuove, spettacolari movenze in battaglia. Così God of War Ragnarok cade, senza far troppo rumore, nel comparto “esplorazione e collezionabili”. Già in God of War del 2018 trovare ogni elemento collezionabile e sfidare ogni avversario opzionale rappresentava un’esperienza dalla validità opinabile. Quantomeno secondaria, di molto, rispetto al gioco “principale”, e come tale lasciata come gioia per i completisti. Ragnarok, invece, va all in.
Gioca tutte le sue carte fin da subito. Sommergendo il giocatore di indicatori, segnalini, oggetti da distruggere e forzieri. Chiavi che portano a missioni secondarie. Che a loro volta, se completate, permettono di accedere ad altre quest secondarie “a grappolo”. Non sempre vale la pena affrontarle, come nel caso di alcune emozionanti sequenze narrative opzionali. Anzi: il più delle volte il gioco corre il serio rischio che la presenza di troppe vie da intraprendere, di troppi oggetti da raccogliere, molti dei quali inutili se non ai fini del completismo, generino solo confusione.
L’attenzione che in God of War del 2018 dovevano spartirsi pochi, più contenuti e selezionati elementi, inoltre, è stata così ridistribuita su una mole soverchiante di altre necessità. Non sempre il giocatore si accorgerà di quale dettaglio, quale animazione, quale texture o particellare ne ha fatto le spese. Le poche volte che accade, però, in un setting e in un contesto altrimenti quasi perfetto si nota molto più del dovuto. Caso vuole che spesso, per non dire sempre, le animazioni, i modelli e i movimenti di determinati personaggi secondari non giocanti che ci guidano/che dobbiamo guidare lascino a desiderare. Sempre intendendo “rispetto alla magnificenza di Kratos”, ovvio. Se non altro, lui e Atreus, insieme al cast degli altri co-protagonisti rimangono meravigliosamente immutati: di statuaria bellezza.
“Horror Vacui”: il timore del vuoto, la paura del foglio bianco quando dovremmo riempirlo di parole.Iil terrore del bicchiere mezzo vuoto, così come di quello mezzo pieno: è il “mezzo” il problema. Il fatto è che in questo caso, a fare da “mezzo pieno” era un predecessore, God of War del 2018, che “mezzo” non era affatto. E cosa succede se riempiamo un bicchiere già pieno?
Intendiamoci, l’ho specificato anche in apertura: God of War Ragnarok è e resta un capolavoro. Un videogioco che dimostra come pochi altri le potenzialità sia comunicative ed emozionali, che di intrattenimento del media. L’esempio che non tutte le saghe hanno una data di scadenza. E che con la direzione giusta la strada non termina sempre con un vicolo cieco.
Però, nel tentativo di superare sé stesso e le ambizioni di un fandom affezionatissimo, è anche un gioco che va pericolosamente vicino al “pieno a tutti i costi”. Arrivando a esserlo, per fortuna, solo in alcuni elementi. Nelle aree Open Map inutilmente dispersive, quasi ad aumentare la longevità del gioco artificialmente. Tanto che per risolvere in fretta gli enigmi, e non perdere altro tempo oltre a quello del viaggio, Atreus o Mimir suggeriscono la soluzione quasi “direttamente” dopo pochi secondi di incertezza. Sia mai che non ci si orienti nella mole di collezionabili che pochi troveranno davvero gusto a rintracciare. Come dicevo, sono solo “alcuni elementi”. Il cui aggravio tuttavia, come ogni altro aspetto di God of War Ragnarok, è aumentato dalla pesantezza di un capolavoro. Di due capolavori, contando anche Ragnarok stesso. Tanto che un po’, concedetemelo, ho deciso di “farglielo pesare” anche io.
Non tanto: giusto qualche grammo. Mi perdonate?