Esteri

Hong Kong, a cinque anni dall’alba cinese

Era il 2019, e tra le strade solitamente trafficate di autoveicoli e pendolari di Hong Kong, due folle si scontravano dopo tempo immemore. Da una parte i manifestanti, dall’altra la polizia. Uno spettacolo già visto centinaia e centinaia di volte in un contesto democratico e occidentale (ma non solo: si pensi alla primavera araba), una novità per l’ex amministrazione britannica. Mai stata una democrazia, ma dotata fin dal 1980 di un robusto e libero apparato giornalistico, una pletora non indifferente di libertà civili, un sistema legale indipendente. Un’eccezionalità nel sistema cinese, che da cinque anni ha de facto acquisito la sovranità della città, ceduta a seguito delle ottocentesche guerre dell’oppio. Con la prima visita del Presidente cinese Xi Jinping nella ex-città indipendente, ripercorriamo la dura transizione del “Paese a due sistemi”.

Dal primo impero alla guerra dell’oppio, dal protettorato britannico alla sovranità cinese del 1997: Hong Kong, crocevia d’oriente

Il presidente cinese Xi Jinping in visita a Hong Kong cinque anni fa – Photo Credits hongkongfp.com

“Un Paese, due sistemi”: una formula che riassume il contenuto dalla Basic Law sottoscritta a Pechino nel 1997, legge che “salvaguardia la stabilità e la prosperità di Hong Kong e protegge i diritti e le libertà dei suoi residenti.” Oggi Xi Jinping, tornato nell’ex colonia britannica a cinque anni dalla progressiva trasformazione in città amministrata con un sistema propriamente cinese, ha lodato quella formula che ne ha garantito prosperità e indipendenza. Ma le cose stanno cambiando, e l’aria di mutamento è da molti ritenuta densa e oppressiva. Se il presidente cinese l’ha paragonata ad una “fenice risorta dalle ceneri”, c’è anche da dire che dal 1997 (anno dell'”handover”, la promessa di “fine-indipendenza” per la città) ad oggi la città ha confermato il suo ruolo di polo globale per il commercio e la cultura. E come spesso succede, la pluralità induce un forte desiderio democratico.

La centralità del porto di Hong Kong, crocevia d’accesso per tutto il ricco sud-est asiatico, ha una storia che si può rintracciare fin dagli albori dell’impero cinese, unificato la prima volta da Quin-Shi-Huang. Dal secondo secolo a. C. fino ad oggi, la città divenne base nevralgica per il commercio internazionale, tanto da attirare l’attenzione coloniale delle potenze europee. Ceduta al Regno Unito dal fallimentare impero cinese a metà del 1800, a seguito delle guerre dell’oppio (quando i narcotrafficanti erano agivano per conto della Corona britannica), da lì in poi l’afflato liberale britannico ha permesso un’evoluzione “europea” per la capitale del commercio asiatico. Più di un secolo dopo, la cessione alla “madrepatria” cinese, che lentamente e faticosamente si allontanava dalle posizioni maoiste per abbracciare l’assetto odierno, illiberale e distopico, almeno per lo sguardo occidentale.

Le proteste del 2019, il più grande sommovimento democratico ad est dell’India

Non ha mai davvero conosciuto la democrazia il popolo di Hong Kong. Ma non per questo non è stato in grado di desiderarla, di esigerla attraverso il mezzo della rivolta. Facilitata e resa attuabile da Internet, la protesta, durata alcuni mesi, è stata una rivolta ibrida, a metà tra il digitale e il “tradizionale”. Rivolte in strada organizzate via chat, indicazioni e formazioni distribuite in maniera criptata: strumenti per arginare l’opposizione illiberale che era soltanto il preludio dell’entrata effettiva al potere del governo cinese. Un movimento, quello di Hong Kong, che non è stato solo di protesta, ma di lotta sensata e democratica, a difesa di quell’articolo 27 della già citata Basic Law che garantisce “la libertà di parola, di stampa e di pubblicazione.”

La rivolta anti-cinese, come sappiamo, si è risolta nel sangue e nel manganello della repressione. Uno scenario che gli spettatori internazionali hanno condannato senza mezzi termini ma contro il quale non si può fare praticamente nulla, almeno a livello politico. La chiusura di giornali storici e di tradizione liberale, l’esilio, volontario o forzoso, di molti sostenitori di una possibilità democratica. Sono queste le ferite che il regime cinese ha segnato nel tessuto della città che seppure non ha mai conosciuto la libertà, l’ha sognata. Per oggi Xi Jinping si aspetta una giornata di festa. Ma dietro gli striscioni e le bandiere del gigante asiatico, c’è l’alba di una città che deve fronteggiare una nuova, forzata identità.

Alberto Alessi

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