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I Daniels: l’ipermodernismo al servizio del racconto

Avete mai avuto un’idea così assurda da pensare che non fosse possibile realizzarla su schermo? Così strana da tenerla per voi per non sembrare strani agli occhi degli altri? Ci sono due registi, Daniel Kwan e Daniel Scheinert, conosciuti con il nome di “I Daniels” che hanno reso possibile tutto ciò. Si muovono tra le fila di un contesto ipermoderno, che si fa gioco quegli idoli tipici della modernità come l’efficienza e il consumo sfrenato. Senza distruggerli, ma accentando la loro esistenza. Attraverso la consapevolezza che tutti camminiamo sul filo delle moire e che basta una piccola folata di vento per sprofondare in un abisso di eccessi e consumi. E quale miglior occasione per parlare di due promettenti registi se non quella degli imminenti Oscar 2023, dove il loro secondo lungometraggio è stato candidato ad 11 statuette.

I Daniels: Swiss Army Man

Questo filo conduttore dell’ipermodernismo è rilevabile nella breve filmografia di questi due giovani cineasti. A partire dal loro primo lungometraggio “Swiss Army Man”. Un uomo sull’orlo del suicidio (Hank, interpretato da Paul Dano) trova la ragione di vita in un cadavere dalle molteplici abilità (Manny, interpretato da Daniel Radcliffe). In una sorta di road movie verso il ritorno alla civiltà, il primo insegna cos’è la vita al secondo e il cadavere insegna ad Hank che vale la pena vivere per sé e per gli altri. I Daniels in questo piccolo gioiello ci insegnano una fondamentale lezione di cinema: un film non è il prodotto di una grande idea, ma di una sequenza infinita di idee geniali che danno vita ad uno spettacolo di due ore. E, stabilita questa premessa, è possibile allora far diventare il protagonista del nostro film un coltellino svizzero umano rendendolo uno dei cardini di un piccolo capolavoro.

Everything Everywhere All at Once

Questo contesto ipermodernista dei Daniels è completamente rilevabile anche nella loro seconda e ultima fatica. “Everything Everywhere All at Once” parla di una famiglia cinese emigrata negli Stati Uniti alla ricerca di fortuna. Si scontreranno con una faticosa realtà che li porterà a vivere una vita modesta nel dietro di una lavanderia a gettoni. Ed è proprio nel momento di massima concretezza, ovvero mentre la nostra protagonista Evelyn (interpretata dalla meravigliosa Michelle Yeoh), insieme a suo marito Waymond (Jonathan Ke Quan) vanno a pagare le tasse arretrare che l’ipermodernismo dei Daniels irrompe su schermo. Waymond cambia carattere e avvisa la nostra Evelyn che l’intero universo è in pericolo e solo lei può salvarlo attraverso i multiversi. La genialità dei due registi distrugge quelle mura di Gerico che dividono la realtà dall’infinità di universi e di idee geniali che i due portano a schermo. Fino ad un finale che ci ricorda come la storia, dopotutto, non sia nient’altro che un racconto di riscatto familiare e di accettazione del diverso. Di amore verso gli altri e se stessi e di come niente conti in un universo infinito. Se non l’amore che ci dà energia e la motivazione per andare avanti. E proprio come nel capolavoro di Capra del 1934 “Accadde una notte”, in cui le mura di Gerico vengono buttate giù in nome dell’amore, in Everything Everywhere all at once queste Mura vengono abbattute in nome di un amore materno che sconfina l’universo.

Alessandro Libianchi

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