La saga dei Florio, I Leoni di Sicilia, sta avendo un successo clamoroso e così anche le parole e il lessico usato sia nei romanzi che nella serie, distribuita da Disney Plus, con Miriam Leone e Michele Riondino. I Florio sono calabresi ma dopo il violento terremoto che colpisce Bagnara nel 1799, si trasferiscono a Palermo; inizia, così, un’interessante scoperta di sfumature lessicali calabresi, come quelle di Paolo Florio e la moglie Giuseppina, che si intersecano con termini dialettali siciliani che saranno poi quelle del figlio Vincenzo, cresciuto a Palermo, e dei diversi personaggi che popoleranno la saga.

I Leoni di Sicilia, la bellezza del dialetto scritto e parlato: le parole dei Florio

Parole dei Florio
Photo Credits: ilsicilia.it

Pier Paolo Pasolini in Dialetto e poesia popolare (1951) scriveva:

Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà.

In linguistica il dialetto è la varietà di una lingua ma se si volesse definire, in accezione romantica, si potrebbe considerare l’espressione dialettale come una manifestazione di identità legata a un territorio; il dialetto è un’etichetta, una carta di identità che indica la provenienza e il legame di ognuno verso il proprio luogo natale. Per alcuni anni si è pensato di tralasciare il linguaggio dialettale per far prevalere l’uso dell’italiano ma oggi, per fortuna, questa tendenza sembra quasi scomparsa; basti pesare ai numerosi scrittori, primo fra tutti Andrea Camilleri, che hanno nuovamente introdotto l’uso dei dialetti in letteratura.

Tuttavia, questa tendenza appartiene al passato: il Sommo poeta Dante Alighieri usava riportare alcune forme dialettali nei suoi scritti, così come Giovan Battista Basile, l’autore napoletano de Lu cunto de li cunti; e ancora gli aspetti del parlato locali utilizzati da Carlo Goldoni nel suo teatro, o i siciliani Giovanni Verga e Luigi Pirandello; lo stesso Pier Paolo Pasolini usa il romanesco per narrare in modo più realistico gli argomenti trattati. Oggi il dialetto ritorna nei romanzi di Stefania Auci e nelle parole della famiglia Florio. I Leoni di Sicilia hanno avuto un successo dilagante non solo per l’avvincente storia di Vincenzo Florio, protagonista indiscusso, ma anche per l’attenzione ai dettagli, ai luoghi, alle tradizioni.

Immergendosi nella lettura del romanzo ci si ritrova catapultati in paesaggi magnifici, in una Sicilia lontana per date temporali ma sorprendentemente moderna per tematiche. Tutto il romanzo è un copioso scrigno di meravigliosi e melodiosi termini dialettali che rimandano ad antiche e poetiche onomatopee. Il prologo de I Leoni di Sicilia si apre con un proverbio che è poi il compendio in termini di quella che è l’affascinante personalità di Vincenzo Florio:

“Cu nesci, arrinesci” 

(chi esce riesce)

I Leoni di Sicilia, i termini ricorrenti nel romanzo

I Leoni di Sicilia non è solo la leggendaria storia dei Florio ma anche una dedica ai colori, i profumi e le tradizioni della Sicilia; alla musicalità della sua lingua, al suo dialetto, al suo retaggio. Una delle parole probabilmente più utilizzate dai Florio, in particolar modo da Vincenzo, è ”picciuli”, i soldi. L’obiettivo di Vincenzo è il potere, un potere che non è avarizia ma una condizione di riscatto: i soldi sono l’unico modo di farsi accettare da una nobiltà che vedrà sempre i Florio come dei poveri bottegai che per mera fortuna hanno fatto successo, nonostante fossero diventati la famiglia più ricca di Sicilia.

Sarebbe diventato così ricco che non avrebbe avuto problemi a trovare una ragazza di una famiglia con tanti titoli e altrettante ipoteche. Una nobile che si sarebbe abbassata a un borghese come lui. I picciuli non mentono, si dice, la robba non ha parole false. 

– I Leoni di Sicilia, Stefania Auci (pag.172)

Un’altra parola che appartiene al retaggio dei Florio è putìa, ovvero la bottega, il luogo da cui originerà tutta la ricchezza della famiglia di Vincenzo. Il termine deriva dal greco apotheke, ovvero una sorta di magazzino o deposito. Il lemma indicava un luogo sito in pubblica via, dove si esponevano o vendevano le merci. Esiste una variante messinese, putìca, e un antico detto che vede questo luogo protagonista:  èssiri di casa e putìa. In realtà questa espressione potrebbe avere vari significati: il primo relativo a una persona abituata a frequentare solo luoghi familiari, quindi avvezza alla conoscenza e alla frequentazione di soli certi ambienti; l’altra variante, proprio per questo motivo, potrebbe riferirsi a una persona ”bigotta” e ”chiusa” con poca conoscenza del mondo.

Espressione che i nobili riservano ai Florio, considerati putìari nonostante detengano un ingente patrimonio e aiutino i nobili caduti in disgrazia, è Pirocchiu arrinusciutu; questo appellativo si riferisce a un individuo di umili origini che è riuscito nella sua scalata sociale senza scrollarsi di dosso l’etichetta che, nonostante tutto, sottolinea le sue modeste origini. Si potrebbe affiancare tale espressione alla moderna concezione di parvenu o ”nuovi ricchi”.

Il dialetto siciliano e le parole della famiglia Florio

L’arte sicula del pettegolezzo è rappresentata dal termine curtìgghiu; questa parola descrive il pittoresco e popolare chiacchiericcio inteso come pettegolezzo. Il lemma curtigghio deriva dallo spagnolo cortijo; in passato serviva a indicare una specie di cortile interno agli edifici, il pozzo luce. Proprio qui ci si incontrava, in un momento di convivialità, per poter parlare tranquilli.

In dialetto siciliano, per descrive una paura improvvisa, si utilizza la parola scàntu; sostantivo che si traduce con ”spavento”. Dall’espressione verbale scàntare, si traduce l’aver paura di qualcuno o qualcosa: Scantài! ovvero Mi è preso un colpo! Ho avuto paura! L’etimologia di questa parola è spesso associata al termine latino excanto, traducibile in italiano con ”attirare a sé con degli incantesimi” anche se nella semantica il significato non ha nulla a che vedere con la magia.

Sul verbo travagghiàri, ovvero lavorare, si poggia tutta la gloria di Casa Florio: legato al francese “travailler“ , la storia del termine è molto antica e proviene dal verbo latino tripaliare, cioè torturare. Anche se il primo significato avuto in siciliano, ovvero provare sofferenza, ha poi lasciato il posto alla traduzione francese legata a una attività lavorativa.

Taliàri e Camurrìa

Taliàri è una delle parole più belle del dialetto siciliano perché non significa solo ”guardare” ma essere assorbiti, con estrema concentrazione, da ciò che si sta guardando. L’ etimologia del termine sembra ricondursi non tanto alla radice sanscrita tal (guardare) ma all’arabo طَلِيعَة (ṭalīʿa), cioè torre di vedetta, diffuso in Sicilia grazie al catalano talaiar/atalaiar. Lemma che spesso compare nella storia dei Florio è camurrìa, forse una delle parole più note del dialetto siciliano, che possiede un duplice significato; da un lato si riferisce a un fastidio, o scocciatura; dall’altro è riferita a una tipica vivacità, una sorta di rumore penetrante.

Nel “Nuovo dizionario siciliano-italiano” del 1876, Vincenzo Mortillaro definisce la camurrìa come una “sorta di malattia, contagiosa, venerea, vedi gonorrea“. Da qui la traduzione con “noia, fastidio ”. Secondo altre versioni deriverebbe da camula, cioè il tarlo che attraverso l’azione del camuliare produce un intenso rumore.

Stella Grillo

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