La Giornata internazionale contro l’omotransfobia cade il 17 maggio di ogni anno, data che ricorda quella in cui l’omosessualità è stata eliminata dal novero delle malattie mentali e ufficialmente considerata una “variante naturale del comportamento umano”. Abbiamo intervistato Federica Invernizzi, psicologa esperta di orientamento sessuale e responsabile del centro di ascolto di Omphalos, associazione LGBTI umbra, che da anni è al fianco dei ragazzi omosessuali vittime di omofobia.

Il 17 maggio 1990 l’omosessualità veniva derubricata da malattia mentale a “variante naturale del comportamento umano”. Da allora quanto c’è ancora da fare perché l’omosessualità non venga considerata devianza non solo in ambito medico-psicologico, ma anche in ambito sociale?

Gli interventi che possono essere messi in atto affinché l’omosessualità venga recepita come una variante normale dell’orientamento sessuale sono di carattere sociale, politico e culturale. Il cambiamento di una definizione dal punto di vista diagnostico se non accompagnato da interventi educativi, sociali e culturali ha poco impatto. Dovrebbe averlo almeno per quanto riguarda i professionisti della salute ma ancora notiamo che, pur se pochissimi, alcuni cedono alla tentazione di fare terapie riparative, pratica deontologicamente scorretta e condannabile. In ambito, socio-culturale e politico è importante che i governi implementino interventi educativi nelle scuole di ogni ordine e grado.

L’omofobia può manifestarsi sotto forme di violenze più o meno palesi. Data la sua esperienza quali sono le più frequenti e le più insidiose?

Le forme di omofobia sono abbastanza varie: si passa dal più frequente utilizzo di termini dispregiativi, come “froc*o” e “ricch*one”, a veri e propri attacchi di violenza fisica. Questo mette a dura prova i ragazzi e le ragazze anche perché tutto questo, il più delle volte, si manifesta negli ambienti scolastici, che dovrebbero essere contesti protettivi, di crescita ed educazione per tutti e tutte e, invece, per le persone gay, lesbiche, trans o presunte tali diventano luoghi di pericolo e minaccia, percepita o reale.

Una faccia dell’omofobia è l’omofobia interiorizzata. Ci spiega cosa è e quanto può essere distruttiva per la salute mentale?

Si parla di omofobia interiorizzata per definire il pregiudizio e le convinzioni negative rispetto all’omosessualità che le persone omosessuali sperimentano nei confronti di se stesse. Nascendo e crescendo in una società omofobica si interiorizzano tutti quei pregiudizi provenienti dalla società e nel momento del riconoscimento del proprio orientamento come omosessuale questi pregiudizi vengono rivolti verso se stessi. É dannosa per la salute mentale in quanto ragazzi e ragazze che la sperimentano possono arrivare a provare rifiuto verso una parte di sé che è identitaria e, dunque, sviluppare una serie di sintomatologie che possono essere di tipo depressivo o autolesivo o anche di dipendenza da sostanze. Tutto questo, se prolungato, può portare allo sviluppo di una psicopatologia. É assolutamente importante prendere in carico questo aspetto.

Lei lavora anche in un’associazione che tutela le persone LGBTI ed è giornalmente a contatto con le esperienze concrete di sofferenza ed emarginazione che vivono i ragazzi omosessuali, cosa si sente di dire a chi sostiene che l’omofobia non esiste o, se esiste, non è qualcosa di cui occuparsi urgentemente?

Le rispondo con dei dati. In Italia il 14 % degli studenti si dichiara anonimamente LGBT, soltanto l’1,7% si dichiara apertamente tale in classe. Il 34% degli studenti ritiene l’omosessualità sbagliata, il 10% una malattia o un peccato; ancora il 27 % non vuole un compagno di banco gay e il 34% degli studenti non vuole condividere con un compagno gay la camera durante le gite scolastiche. In Italia il 62% delle persone LGBT evita di tenere pubblicamente per mano il compagno o la compagna. Per quanto riguarda l’accettazione in famiglia, il 36 % dei minori è stata costretta a rivolgersi a Gay Help Line a seguito di coming out, il dato varia di poco per i maggiorenni: il 17 % di loro dichiara di essere stata cacciato di casa o aver perso il sostegno economico della propria famiglia dopo il coming out.

Parliamo del Ddl Zan. I suoi detrattori lo additano come bavaglio alla libertà di espressione, è davvero così? In che modo può aiutare a sconfiggere l’omofobia?

Il Ddl Zan non rappresenta sicuramente un bavaglio alla libertà di espressione, ma quanto più una tutela per le persone gay, lesbiche e trans che tutti i giorni si trovano a dover rapportarsi e raffrontarsi con una società eterosessista e che, quindi, dà per scontato l’orientamento sessuale e che viaggia su un binarismo di genere, che considera solo la categoria maschio-femmina e basata sul cisgenderismo. Il Ddl Zan impone di non utilizzare quei termini che sono dispregiativi per l’orientamento di una persona, permettendo a gay, lesbiche e trans di vivere in una società che li rappresenti. Una piccola aggiunta: i paesi più ricchi ed economicamente più stabili sono anche quei paesi che riconoscono i diritti e non quelli che li tolgono, perché compito di uno Stato è tutelare e riconoscere tutti e tutte, in modo tale che nessuno si senta escluso dalla comunità. Questo, dati alla mano, è un prerequisito necessario e fondamentale per la ricchezza del paese: se c’è benessere psicologico ci sarà anche maggior benessere economico.

Un altro degli argomenti forti di chi si oppone all’approvazione del Ddl Zan è la paura di non poter più esprimere la propria contrarietà alle adozioni gay. Ora, posto che chiunque si dica contrario alle adozioni gay potrà continuare a farlo, ci dice cosa ne pensa il mondo scientifico su questo tema?

In Italia sono presenti famiglie omogenitoriali, quindi quando ci interroghiamo se sia giusto o sbagliato che gay e lesbiche possano adottare e/o avere dei figli dobbiamo dirci che il nostro Paese ha già bambini e bambine che fanno parte di famiglie omogenitoriali. Non riconoscendo legittimità a queste famiglie non stiamo riconoscendo il diritto di appartenenza a dei minori e stiamo discriminando a livello istituzionale famiglie di serie A e di serie B, creando danni psicologici ai bambini che ne fanno parte. La comunità scientifica internazionale è unanime nel definire che il danno psicologico non avviene nel vivere in una famiglia omogenitoriale, ma da quanto la società nella quale queste famiglie sono inserite le riconosca come tali. La nostra società negando a queste famiglie di essere definite tali sta negando questi bambini di crescere in un ambiente sociale, culturale e politico che li riconosca e li rappresenti.

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Giulia Moretti