Il meglio del 2018: “Off”, “Indie” e “Underground”

Foto dell'autore

Di Redazione Metropolitan

Come ogni anno, la seconda metà di dicembre offre lo spunto a tutti noi giornalisti, osservatori e addetti ai lavori del ‘pianeta musica’ per stilare la amata/odiata listona del meglio di quanto è stato ascoltato e/o recensito. In classifiche come queste, tanto ricche quanto eterogenee, la tanto agognata “oggettività” bramata da ogni critico ha il tempo che trova, lasciando trasparire in filigrana inevitabili gusti personali/soggettivi.

Noi di Metropolitan, anche se in “zona Cesarini”, non potevamo essere da meno e salutiamo il 2018 sonoro con un’utile (e speriamo non troppo verbosa) carrellata di quanto di meglio ha avuto da offrire la musica nella sotto-categoria “Indie”, “Underground” e “Off”, vale a dire la produzione discografica un po’ più nascosta alle orecchie del cittadino frettoloso/distratto, slegata dalle mode del momento, dal “Mainstream”, dal “Nazional Popolare”, dalle logiche mercantili più prevedibili, dai prodotti ‘pop’ tanto fortunati quanto poveri di novità e contenuti. Insomma, vi racconteremo di un flusso sonoro che esiste ma NON occupa ogni settimana tutte le Top 20 mondiali, tutte le playlist radiofoniche ‘precotte’ dei principali network oltre che le compilation più ‘glamour’ e commerciali delle principali piattaforme di ascolto in streaming. E quindi lasciamo ad altri il compito di parlare di Trap, di Reggaeton, di pop in salsa ‘Talent Show’ e da surrogati che di rock hanno solo una vaga attitudine.

E se partiamo dall’assunto che già dai primi anni Dieci del Duemila, il Rock più originale e stimolante – pur nelle sue più multiformi evoluzioni/affiliazioni – sembra aver smesso di essere significativo, di plasmare lo ‘Spirito del Tempo’ influenzando il ‘Pubblico di Massa’ o le giovani generazioni (da sempre gli acquirenti più fedeli), allora “guide all’ascolto” come questa assumono un valore, un significato ancor più rilevante. Ci mancherebbe, ormai non è certo un mistero per nessuno: da tanti anni ormai la musica ha polverizzato/digitalizzato la sua fruizione, sfrutta con successo supporti, apparecchi e piattaforme completamente differenti rispetto all’era “Pre-Globalizzazione”, arriva al grande pubblico e viene condivisa in maniera certo più ‘social’, innovativa, rapida, facile e capillare. Ma questa musica non è più il Rock.

Che, come si accennava, pare essersi ormai non diciamo estinto, ma sicuramente sempre più ritirato all’interno di un’immaginaria riserva indiana di amatori, buongustai e ‘speleologi’ che non si accontentano degli omogeneizzati offerti dalle Multinazionali del disco e preferiscono andare oltre la superficie.

Le belle e le buone scoperte, per chi appunto ha tempo e voglia di scavare e avventurarsi oltre, non mancano. Certo, esiste (e per fortuna gode anche di ottima salute) il circuito ‘Live’ dei festival estivi, dei luoghi della musica dal vivo, ma questo non basta se non c’è una preventiva curiosità diciamo ‘domestica’ riguardo gli artisti e le band da ascoltare prima su disco per poi appunto testarle dalla platea verso il palcoscenico.
E allora eccoci qui, a darvi se vorrete qualche dritta in più per osservare e scoprire sonorità di altri mondi che con la buona musica hanno parecchio in comune.

E partiamo dalle eccezioni alla regola: gli Arctic Monkeys per esempio, seppure una band arcinota al grande pubblico (con il leader Alex Turner nel ruolo di ultima vera rockstar dei nostri tempi) ha saputo con “Tranquility Base Hotel & Casino” svariare e allontanarsi parecchio dal copione ‘indie rock’ quasi stoner cui ci aveva abituati e percorrere territori finora inesplorati, flirtando con il pianoforte e altri strumenti da loro meno frequentati, con la stella nera e polare di David Bowie a guidare il cammino.

Anna Calvi con “Hunter” ha dimostrato di essere ancora in grandissima forma. Un’altra artista ormai di grande e meritato successo è l’americana Annie Clark, meglio nota con lo pseudonimo di St. Vincent: lo scorso ottobre ci ha deliziato con riletture molto intime e confidenziali del suo ultimo album, “MassEducation“, per voce e piano. Un’altra maniera per scoprire tutta la classe, il carisma e l’espressività della più grande cantautrice oggi sulle scene. Chiudiamo la parentesi dei ‘Famosi ma ancora in forma’ citando gli ultimi lavori discografici del vecchio leone David Crosby (“Here If You Listen“), della regina e dark lady Marianne Faithfull (“Negative Capability“), di J. Mascis (“Elastic Days“) e del redivivo solista Jeff Tweedy (“Warm“).

E arriviamo al cuore del nostro articolo, lasciandovi in dote una rapida carrellata del “meglio” secondo noi, ordinato per sottogenere. Il post punk anglo/americano quest’anno ha sbancato ed ha lasciato il segno come non accadeva da svariati decenni: l’esordio degli Shame (“Songs of Praise“), il secondo lavoro degli Idles (“Joy as an act of Resistance“) e “Wide Awake!” dei Parquet Courts sono lì a testimoniarlo. Il cuore pulsante del rock più viscerale, se è ancora vivo, batte certamente da queste parti.

Anche il jazz ha brillato di luce propria grazie ai dischi di Kamasi Washington (“Heaven & Heart“, doppio e monumentale come suo solito) e soprattutto Sons Of Kemet (lo splendido “Your Queen is a Reptile” col suo ritmo trascinante quasi afrobeat). Restando in ambito black music, citiamo con piacere il soul morbido e levigato dell’esordiente Jorja Smith (“Lost and Found“, di cui sentiremo parlare) e “Room 25” l’album di debutto della rapper di Chicago Fatimah Warner, in arte Noname, decisamente slegato dalla mania/moda trap eppure ricco di ironia, ‘flow’ e ottime vibrazioni tutte da ascoltare.

Gli amanti del folk e del country americano non restano a bocca asciutta: già perché là fuori c’è il talento cristallino di una cantante come Kacey Musgraves (“Golden Hour“), capace di stregare con un sapiente mix di country/pop à la Sheryl Crow, ricco di appeal e personalità e in grado di vendere (la nomination al Grammy Award nel suo genere non è un caso) senza perdere un grammo di stile. E cosa dire di Colter Wall, che a 23 anni possiede una voce che piacerebbe tanto a Johnny Cash? Il suo “Songs of the Plains” è una colonna sonora da viaggio ‘on the road’ nelle pianure statunitensi, illumina la notte come un falò.

Per chi volesse dello scoppiettante indie rock, ricco di ganci melodici e ottima scrittura: i nuovi lavori delle cantautrici statunitensi Courtney Barnett (“Tell Me How You Really Feel“) e Anna Burch (“Quit The Curse“), oltre alle neo-zelandesi The Beths (“Future Me Hates Me”) sono quanto di meglio espresso quest’anno.
Per quanti invece preferissero un flusso sonoro più acustico, morbido e confidenziale, pur iscritto nella migliore tradizione cantautorale americana: Alela Diane (“Cusp”), Marissa Nadler (“For My Crimes”) e Josephine Foster (“Faithful Fairy Harmony”) sono le giovani/veterane, mentre segnaliamo un talento purissimo e in crescita, quello della trentenne e anche lei debuttante Miya Folick (“Premonitions”), seguita in ottima compagnia da Waxahatchee (“Great Thunder” EP),  Adrianne Lenker (“Abisskiss”) e Tomberlin (“At Weddings”).

Una coppia di cantautori che senz’altro avrebbero ben figurato tra i fumi di sigaretta e l’oscurità del Lynchiano “Bang Bang Bar” di Twin Peaks sono Marlon Williams dalla Nuova Zelanda (il suo “Make Way For Love” incanta e seduce) e Molly Burch (“First Flower”).

L’album sperimentale e d’avanguardia più stimolante di quest’anno è, a nostro avviso, quello inciso dal trentenne Josiah Wise, alias Serpentwithfeet: il suo debutto (“Soil”) farebbe felice i seguaci di Bjork ed è un audace e riuscito mix di soul, R&B, echi gospel ed elettronica.

E la musica italiana? Tranquilli, non ce ne siamo dimenticati. E vi proponiamo anche qui nomi lontani ed estranei alla trap, al pop preconfezionato di derivazione ‘talent’ e ai soliti stanchi dinosauri che pure ancora tanto riscontro sembrano avere presso il pubblico di massa. Dunque: Riccardo Sinigallia che con “Ciao Cuore” ha confermato il valore e il talento che da sempre lo contraddistingue. I Giardini di Mirò (“Different Times”), sempre abili nell’offrire nuovi colori a un quadro ‘post-rock’ in continua trasformazione/evoluzione; gli esordienti Gigante (“Himalaya”) e Verano (“Panorama”), il gradito ritorno di Maria Antonietta (“Deluderti”), lo splendido collage di sonorità mediterranee/afro/americane dipinte dal siciliano Alessio Bondì (“Nivuru” è un lavoro di rara bellezza) così come il dialetto – stavolta non palermitano ma napoletano – di Gnut (“L’orso ‘Nnammurato’, scrigno di poesie musicate, appena uscito). Luci e ombre, ma comunque un talento che riconosciamo, per “Evergreen”, chiacchieratissimo secondo album di Calcutta, ormai decisamente in orbita Nazional-Popolare ma come si diceva comunque valido nell’istinto melodico e nel saper catturare una sequenza vincente di ‘strofa/ritornello’. In chiusura, ultimo ma non ultimo, così atipico e fuori dagli schemi, eppure tutto da scoprire, il secondo album solista di Any Other, “Two, Geography”.


di Ariel Bertoldo