“Il senso di Hitler”: come spiegare ciò che non è ancora stato spiegato?

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Di Redazione Metropolitan

2020: mentre negli Stati Uniti movimenti legati al suprematismo bianco e al complottismo antisemita trovano inattese sponde sin dentro al residente dello Studio Ovale, i due filmaker Petra Epperlin e Michael Tucker interrogano e si interrogano sull’eredità nell’immaginario popolare, se non nell’inconscio collettivo, della figura di Hilter e dell’intero sistema nazionalsocialista. Qual’è il vero senso di Hilter?

Affrontare cosa possano davvero aver significato per il popolo tedesco e per l’intera popolazione mondiale i vent’anni e più dell’esperienza nazista è una gatta da pelare contro cui storici, sociologi e psicologi sbattono la testa da più di ottant’anni, nel tentativo di sintetizzare le esperienze di ognuno in una risposta definitiva e unitaria.

“Il senso di Hitler”: un universo di sensi

In questo senso il lavoro di Perta Epperlin e Michael Tucker è una sorta di compendio interpretativo reso necessario agli autori dai rigurgiti tutt’altro che underground delle principali mozioni di quell’epoca, per molti versi elementi elementi-cardine del trumpismo. Il centro di gravità permanente da cui i due partono nel loro sforzo è “The meaning of Hitler”, scritto nel 1978 dal giornalista tedesco Raimund Pretzel sotto lo pseudonimo di Sebastian Haffner. Sette capitoli, sette aspetti della figura del Fuhrer e della sua emanazione politica nel tentativo di delinearne un figura umana e istituzionale capace di dare un minimo di ordine e significato a un’entità di tali dimensioni.

I due registi, partendo e divagando liberamente intorno ad un capitolo dell’opera per volta, affondano il colpo con la propria inchiesta ricorrendo a storici, sociologi, filmati d’epoca e testimonianze contemporanee. La struttura del lavoro è decisamente libera. Un sorta di riflessione anarchica, un flusso di coscienza un po’ artsy, non sempre chiarissimo, che procede per analisi di concetti o nuclei di riflessione piuttosto che seguire una linea cronologica o tematica. L’innegabile limite di questo tipo di approccio, e inevitabilmente del tipo di formato filmico scelto, sta nel non poter dedicare il tempo, il rigore e le attenzioni necessarie a quanto storicamente appurato e indiscutibile nella costruzione del mito hitleriano e nazista.

“il senso di Hitler”: la costruzione dell’idolo

Basti pensare al ruolo centrale della regista Leni Reiefenstahl nella propaganda di regime e dell’importanza avuta da “Il trionfo della volontà” e dal suo documentario sulle Olimpiadi del 1936. Pochi accenni e poi di nuovo dentro al maelstrom di storicizzazioni, mostruosi traumi collettivi irrisolti, banalità del male e raffinate tecniche di propaganda. A mantenere in parte la barra dritta, i preziosi e chiarificanti interventi di Yehuda Bauer, Richard Evans, Deborah Lipstadt e Saul Friedlander, storici dell’Olocausto, e dello scrittore Martin Amis.

A fare da loro contraltare David Irving, alfiere ante litteram della post-verità e teorico dell’inconsapevolezza della Soluzione Finale da parte di Hitler, vittima delle manipolazione di Himmler e degli alti papaveri nazisti. Esplicitamente razzista ed antisemita, condannato a più riprese per l’inconsistenza delle proprie tesi, in una Polonia sempre più nera organizza visite guidate a Treblinka dove espone le sue teorie sull’innocenza di Hitler e intrattiene gli entusiasti visitatori con l’intera enciclopedia dell’umorismo antisemita. Irving liquida Auschwitz come una tappa “non importante” del proprio personale tour di svelamento del complotto semita.

I possibili sensi di Hitler

Sono forse due i momenti, messi non a caso in chiusura di pellicola, a dare le direttive d’interpretazione più chiare in quel ginepraio che è l’approccio analitico all’esperienza nazista e alle sue spore che ancora ci infestano. Il primo è umano, quasi antropologico e disarmante nella sua semplicità. A specifiche condizioni e davanti a determinate garanzie, l’essere umano è disposto a qualsiasi cosa e, anzi, la accoglierà con fede ed entusiasmo, qualunque sia il prezzo. Manipolazione politica di massa, quindi manipolazione emotiva di massa. Il secondo è storico ed emblematico ed è individuabile nel “campo della morte” di Sobibòr, Polonia. Continue esecuzioni dove l’unico intoppo all’applicazione fordista delle stesse era rappresentata dalla sovrapproduzione. Treni in coda l’uno all’altro in attesa di scaricare i prigionieri da eliminare prima che morissero di stenti sui convogli.

Il lavoro lungo anni dell’archeologo  Wojciech Mazurek ha infine permesso il ritrovamento delle fondamenta delle camere a gas del campo. Archeologo e non solamente storico, perché all’apparenza il campo di sterminio di Sobibòr non è mai esistito. Raso al suolo e cancellatane ogni traccia, al suo posto c’è un’ordinata e fin troppo placida distesa di alberi. Quel che resta è tutto sottoterra. Nel 1943 Himmler, in un discorso alle SS, ordinò che quella di Sobibor dovesse essere “una pagina di storia da non scrivere”. L’assedio di Stalingrado era ufficialmente fallito e le prospettive della guerra si stavano rapidamente ribaltando. Di fronte alle conseguenze di una probabile sconfitta, meglio iniziare a limitare i danni. Cancellazione della storia e creazione concreta e in tempo reale della post-verità ad uso e consumo dei posteri.

Andrea Avvenengo

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