Com’è noto, il Dpcm Draghi stabilisce che non è consentito spostarsi in Italia tra Regioni, ma ci sono liste di Paesi esteri verso i quali è possibile recarsi per turismo. Nessuna motivazione di tipo lavorativo o di altra natura, dunque. Le misure per chi decide di attraversare i confini nazionali prevedono il solo obbligo di sottoporsi al tampone, una volta rientrati, accompagnato da isolamento fiduciario di 5 giorni (14 per i paesi fuori dall’area Schengen). Così, mentre milioni di persone restano a casa durante la pandemia, altrettante decidono di viaggiare. E mentre la “stanchezza pandemica” colpisce duramente, altrettanto fa la rabbia. Perché tra i paradossi e lo stupore, c’è chi non l’ha presa tanto bene: il settore turistico italiano e gli albergatori, soprattutto. Ma non solo: perché il sentimento di ‘irritazione’ che spesso aleggia nei confronti di chi intende partire, o raggiungere le seconde case, ha dato vita a quello che gli inglesi definisco ‘travel shaming’: un fenomeno che ha trovato, senza sorpresa, terreno fertile sui social, al punto che chi viaggia in questi mesi complessi ci pensa bene prima di condividere la propria esperienza con il mondo virtuale, reduci da tutte quelle volte in cui si è prodotta una tempesta di commenti d’odio e messaggi passivo-aggressivi, persino contro gli ‘intoccaboli’ personaggi famosi: Kendal Jenner e Kim Kardashian sono un esempio. Sebbene sia dunque legale, viaggiare ha dato vita ad una sorta di “vacation police” che, con le argomentazioni online, fa pressione su coloro i quali sono disposti ad accettare i rischi del viaggio in questo momento instabile.
Cosa c’è dietro al travel shaming?
Per quanto assurdo possa sembrare, il travel shaming sta diventando una patologia, confermata anche da molti medici statunitensi che hanno fatto notare quanto il fenomeno provenga principalmente “da un luogo di paura”: il non voler diffondere il virus. A volte in maniera preoccupante. Di conseguenza chi sembra non rientrare in questa ‘categoria’, probabilmente non perderà il lavoro, né sarà vittima di disuguaglianza, ma risentirà di stress e tensioni indesiderate: l’esatto opposto di ciò di cui ognuno di noi ha bisogno in questo momento. A dimostrarlo sono i tanti travel influencers per i quali l’esperienza del viaggio corrisponde quasi totalmente con il lavoro – aspetto, tra l’altro, che in molti sottovalutano – fra cui Mona Molayem, una travel blogger che ha recentemente lavorato con una città degli Stati Uniti che sta nuovamente accogliendo i turisti, e che – come dichiarato a Fodor’s – è stata insultata per aver fatto il suo lavoro: “Anche se stavo promuovendo viaggi sicuri, delineando le misure che la città ha messo in atto, alcune persone sui social media mi hanno insultato, in particolare la gente del posto che mi ha definita pazza per aver promosso i viaggi durante una pandemia, anche se sono stati i funzionari della città a sostenerlo”. Mentre Laura Peters, una blogger del Minnesota che recentemente si è recata nella Polinesia francese – aperta ai turisti internazionali – ha ammesso di aver provato vergogna per aver anche solo accarezzato l’idea di avventurarsi in vacanza con il marito: “Ci è stato detto da diversi lettori che i nostri piani erano irresponsabili e insensibili perché stavamo mettendo a rischio gli altri”. “Personalmente non capisco come una persona che non ho mai incontrato, che non mi conosce, e non ha niente a che fare con me, abbia il coraggio di dire che sto infrangendo le regole, che non sto indossando la mascherina e diffondendo il Covid, basandosi su un video di 25 secondi”, ha infine confessato Barbara Ondrackova, all’Insider.
Di certo reazioni e commenti negativi sono cosa nota sulla Terra del web, ma sempre più nota sta diventando la tendenza a portare qualsiasi cosa all’esasperazione. Perché parlare di fenomeni simili – figli “dell’Internet” – come di una ‘malattia’, fa quasi sempre sorridere: una reazione del tutto legittima, se non fosse che dall’altra parte c’è chi subisce e non riesce a farsi ‘scivolare’ tutto addosso. Qualcuno ne fa motivo di sofferenza, anche se può sembrare eccessivo. Ma non sembra che esista ancora una qualche lista di ragioni per i quali è giusto star male e dunque esser presi sul serio. Per quanto sia facile fregarsene dei giudizi altrui, la verità è che è più facile dirlo, di fregarsene. Specie se riflettiamo su una dimensione come quella di internet, diventata ormai teatro di un legittimo “prendere parola”, esprimere opinioni, esporsi, ostentare, senza pensare quei 10 secondi necessari prima di dire, fare, postare. Fino al punto che ci si sfoga di ogni frustrazione personale, minacciando, deridendo e accanendosi come i classici ‘bulli’ della scuola. Presunzione e senso d’invincibilità, manipolazione e narcisismo sembrano abitare la bacheca quanto la scrittura sui social, colpendo chi invece ne resta al di fuori e subisce: per fortuna – forse – perché paradossalmente è la prova che non siamo diventati tutti ‘cacciatori’ di un fantomatico ‘io’. L”io che, a seconda dei casi, si innalza a ‘tuttologo’ e ‘giustiziere’, che in una parola si potrebbe descrivere come nocivo. Anche quando questi atteggiamenti sono dettati dalla semplice paura, perché per quanto legittima, la paura è un’emozione di difesa – generalmente provocata da una situazione di pericolo, come quella che sentiamo di avvertire adesso – che tuttavia non ci ‘abilita’ a criticare chi non sposa le nostre stesse scelte o opinioni. Per non parlare del fatto che, nel caso specifico, sono innumerevoli i motivi per i quali si può decidere di partire: il fattore terapeutico, ad esempio. Roberta Maeran, docente di Psicologia del Turismo all’Università di Padova ha osservato proprio come “poter effettuare una vacanza è espressione sempre di più di una necessità“. La necessità di stare bene, tutelare la nostra salute mentale, messa a dura prova più che mai in questi mesi di confinamento fra le mura domestiche, o poco più fuori. Lungi dal chiedere di vestire i panni degli altri, si potrebbe almeno riflettere prima di parlare no. Qualcuno direbbe che “non si può dire più niente”, ma a dire il vero si dice anche troppo.
Francesca Perrotta