Nello spazio di LetteralMente Donna, di oggi, una donna che ha sacrificato la vita combattendo contro il nazifascismo durante la seconda guerra mondiale. La donna è Ines Bedeschi e questa è la sua storia.

Ines Bedeschi, un sacrificio per la patria

LetteralMente Donna è dedicata a Ines Bedeschi
Ines Bedeschi, fonte viaggiatoriignoranti.it

“Non ho parlato e non parlerò”. Sono le parole, come riportato da Collettiva, che durante la prigionia, nonostante le brutali torture nazifasciste, la partigiana Ines Bedeschi, nota con il nome di battaglia di Bruna, continuò a ripetere prima di essere fucilata sulle rive del Po il 28 marzo 1945 dopo essere stata catturata il 23 febbraio dello stesso anno. La Bedeschi era figlia di agricoltori e si era unita alla Resistenza partigiana dopo l’armistizio di Cassibile del 1943. Un anno più tardi entra a far parte del CUMER (Comando Unificato Militare Emilia-Romagna) dopo che la sua casa era già diventata un luogo importante per i partigiani locali. Il suo compito principale era quello di staffetta. Un ruolo per il quale svolgeva delicate missioni in cui spesso raccordava il Cumer con il Comitato di Liberazione , i partiti clandestini e i comandi partigiani regionali.

Un cippo alla sua memoria eretto a Conselice il cui testo è stato scritto da Renata Viganò recita:

“Ines Bedeschi era nel fiore della vita
e tutta intera voleva viverla
invece la dette da partigiana
ad ogni cosa più cara rinunciò che non fosse la lotta
dalle sue valli e monti di Romagna
andò dove era maggiore il bisogno
la presero i nazisti feroci e spaventati
la tortura non strappò dalla sua bocca rotta
neppure un nome di compagno
infuriati i tedeschi la portarono sulla riva del po
ma anche in un giorno di primavera che era fatica morire
Ines Bedeschi non sentì la voglia
di salvarsi col tradimento”

Le donne dimenticate della Resistenza Italiana

Nonostante l’enorme contributo dato dalle donne italiane alla causa della Liberazione nazionale solo 19 di esse sono state insignite della medaglia d’oro al valor militare tra cui la stessa Ines Bedeschi. Questa medaglia venne infatti assegnata l’11 settembre 1968 all’eroica partigiana emiliana che morì per la libertà con la seguente motivazione:

“Spinta da un ardente amor di Patria, entrava all’armistizio nelle formazioni partigiane operanti nella sua zona, subito distinguendosi per elevato spirito e intelligente iniziativa. Assunti i compiti di staffetta, portava a termine le delicate missioni affidatele incurante dei rischi e pericoli cui andava incontro e della assidua sorveglianza del nemico. Scoperta, arrestata e barbaramente torturata, preferiva il supremo sacrificio anziché tradire i suoi compagni di lotta.”

Quella delle donne è stata lungo una Resistenza dimenticata mentre della Liberazione veniva preferita la componente maschile. Eppure secono l’Anpi le donne che effettivamente parteciparono attivamente, svolgendo diversi compiti, alla Resistenza, furono circa 35000. Una cifra che secondo Arrigo Boldrini, partigiano, politico e presidente dell’Anpi, fu solo “il contingente di punta di un grandioso esercito di collaboratrici e sostenitrici della lotta”.

Questo perchè, prosegue, come riportato da Collettiva, “Il censimento minuto ed esatto della somma dei contributi femminili alla Resistenza è impossibile proprio per il suo carattere di massa: nel corso di quei due anni vi fu la contadina che compiva chilometri a piedi in mezzo ai blocchi nazifascisti per recare i viveri a un gruppo di partigiani; vi fu la casalinga che preparava indumenti da avviare alle bande in montagna; vi fu l’operaia che nascondeva un pezzo della macchina affidatale in fabbrica affinché i tedeschi non avessero interesse a portarla via o la produzione per loro conto venisse interrotta. Moltissime di quelle donne non chiesero mai riconoscimenti e le cronache e la storia ne ignorano persino il nome.”

Il problema della qualifica di partigiano

D’altronde dopo la guerra la qualifica di partigiano veniva riconosciuta solo a “chi aveva portato le armi per almeno tre mesi e aveva compiuto almeno tre azioni di guerra o sabotaggio (o almeno aveva fatto tre mesi di carcere o sei mesi di lavoro nelle strutture logistiche)” e questo determinò che un gran numero di donne, nonostante l’enorme contributo dato alla lotta di Liberazione, non venissero riconosciute.

Stefano Delle Cave

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