Sul web è conosciuta come Eretica ed è una delle attiviste dietro alla pagina Facebook Abbatto i Muri. Femminista intersezionale, non crede al detto “le donne sono le peggiori nemiche delle donne”. «È comodo pensarla così» ci dice, «ed è uno dei modi in cui la cultura patriarcale si libera della sua stessa responsabilità». Picconatrice di muri e pregiudizi, prima nelle piazze e poi sulla rete, dove insieme ad altr* attivist* contribuisce quotidianamente al dibattito e alla lotta per l’inclusione, a settembre ha lanciato l’iniziativa #tuttacolpamia, dove chi ha subito una violenza fisica e/o psicologica può raccontarsi sulla pagina Abbatto i Muri, senza paura di ricevere giudizi.
Non solo attivista ma anche scrittrice. Il suo romanzo Limbo: L’industria del salvataggio racconta la complessità dei femminismi attraverso la lente distopica e violenta di un ipotetico futuro matriarcale. «Mi sono staccata dalla saggistica» ci racconta parlando della sua passione per la scrittura. «Il linguaggio del femminismo sapeva troppo di accademia, era complicato e non accessibile a tutt*. La nostra comunicazione doveva cambiare». Alla parola “narrativa”, però, preferisce quella di “testimonianza”.
Così abbiamo parlato con Eretica di femminismo, violenza di genere, colonialismo culturale e autodeterminazione. E dei muri da abbattere (e di quello che ci aspetta oltre).
Eretica, Ci racconti qualcosa in più sulla pagina di Abbatto i Muri?
La pagina è gestita da diverse persone. E poi c’è un gruppo di lavoro dietro le quinte: facciamo editing, segnalazioni, post. E poi ci sono le traduzioni, su cui ci siamo specializzati in termini di lavoro. La dialettica femminista italiana è stata per molto tempo chiusa rispetto a certi temi: queer, transfemminismo, sex-positivity, sex working… E comunque, quello che succede qui non completa il quadro. In tutto il mondo ci sono situazioni molto diverse. Per questo traduciamo dall’inglese e dallo spagnolo e siamo in contatto con tante sorelle che vivono all’estero. È un modo per capire qual è la situazione là fuori e come adeguare al meglio le nostre lotte.Alcuni di questi testi sono stati pubblicati, altri sono disponibili gratuitamente in rete. Per molto tempo ce li siamo scambiati tramite newsletter, era una sorta di “editoria clandestina”. Quando in Italia sono comparsi i blog abbiamo potuto mettere questo materiale a disposizione di tutte le persone che erano interessate e questo ha ampliato gli orizzonti.
Come è nata l’idea di #tuttacolpamia?
Da un certo momento della storia della pagina, la tendenza a raccontarsi è comparsa in maniera naturale e collettiva. Le persone hanno capito che la pagina era affidabile e sicura e hanno iniziato ad aprirsi. Questo perché non permettiamo a nessuno di giudicare le testimonianze altrui con superficialità.
Il femminismo è una cosa che deve partire da sé. È indispensabile mettersi in gioco. Questo ti porta a stabilire un legame; nel mio caso, tra Eretica e le persone che trovano il coraggio di scrivere quando capiscono che la nostra pagina è un safe space. Ci si sente a casa e ci si apre più facilmente. Nel dibattito mancava un elemento: la piena comprensione che ci sono esperienze di violenze e di molestie subite che non vengono definite all’interno della violenza di genere, cose che non diciamo neanche a noi stesse. #tuttacolpamia parte proprio dalle nostre storie personali.
Secondo te perché esiste la tendenza a sottovalutare o sminuire episodi di abuso?
Questo dipende dalla narrazione della violenza che ci viene imposta e da un’estetica della violenza ben precisa: lo stupro, ad esempio, viene percepito come tale solo se avviene in certe circostanze. La casistica della gravità ha determinato questa narrazione che fa gioco a chi ha bisogno di definire l’“emergenzialità” della violenza. Ma in questo modo si contribuisce a una deresponsabilizzazione di massa e alla creazione di un immaginario collettivo che non tiene conto di tutte le altre violenze, che finiscono per rimanere nascoste, sommerse. Se non sei morta, se non finisci ammazzata, squarciata, non c’è la stessa indignazione. E l’indignazione oggi è la chiave della comunicazione.
Quali sono i luoghi e i contesti in cui possiamo fare la differenza per migliorare la situazione?
Io non ragiono in termini politici, non sono una politica, non mi occupo di quello. Mi interessano la cultura e l’educazione. Chi cresce in una cultura misogina, sessista, patriarcale e maschilista finisce per supportare tutto questo. C’è chi collabora e chi, “semplicemente”, tollera. Ma la discriminazione di genere non è una questione solo maschile ma culturale, che riguarda tutto e tutti. È la parte sociale che costruisce la cultura.
Una delle primissime cose da fare è l’educazione al rispetto di genere. Ascoltando queste storie ti rendi conto che i bambini dovrebbero essere educati fin da piccoli al rispetto di genere. Ma è importante educare anche per prevenire episodi di bullismo, misoginia, sessismo e omofobia; tutte quelle “belle cose” di cui ci nutriamo ogni giorno. E poi è necessaria l’educazione sessuale. Se non fai educazione sessuale non educhi le persone al rispetto del consenso. C’è chi cresce con il “culto” secondo cui una donna che dice no in realtà vuole dire sì. Se non sai cos’è il consenso non capisci se l’altra persona ti sta dicendo sì oppure no.
Tutto questo fa parte della grande bugia che ci raccontiamo e che diventa un alibi, un modo per nascondere violenze che dovrebbero essere più visibili. Si torna al #tuttacolpamia: le donne pensano che quello che gli è successo non è poi così grave. Nel momento in cui una persona cresce senza poter avere fiducia nei propri istinti e nelle proprie sensazioni, in un mondo in cui viene educata a sentirsi sbagliata in tutti i sensi – per come si veste, per quello che dice, per quello che fa – che tipo di scelta compirà quando sarà adulta? Che modo troverà per stare al sicuro? Se offendiamo, insultiamo, occultiamo, annebbiamo la percezione delle persone è difficile 1) che capiscano di essere vittime e 2) che riescano a uscire dalla situazione per riscattarsi, per ritrovarsi e per costruire una vita in cui si potranno sentire non soltanto vittime o sopravvissute, ma anche e soprattutto rinate e autodeterminate, e in grado di poter decidere da zero per se stesse senza dover seguire un copione che qualcuno ha scritto per loro fin da quando erano piccole.
Negli ultimi tempi abbiamo visto i talebani salire al governo in Afghanistan. In molt* hanno dato vita a iniziative, anche sui social, per solidarizzare con le donne afghane. Cosa può fare concretamente il femminismo occidentale per l’Afghanistan?
Di recente qualcuno in Italia ha scritto: dove sono le femministe? Perché non parlano dell’Afghanistan? Noi, in realtà, parliamo sempre (e di solito, quando parliamo, ci dicono che dobbiamo stare zitte).
Io sono per l’autodeterminazione delle donne. Non mi piacciono gli interventismi, la libertà imposta, le “guerre giuste” o i “diritti importati”. Quando scendevamo in piazza contro la guerra in Afghanistan e l’interventismo degli Stati Uniti – che volevano “liberare le donne” – noi ascoltavamo le donne afghane e RAWA (una delle organizzazioni femminili afghane indipendenti più attive in campo sociale sia in Afghanistan che in Pakistan tra i rifugiati afghani, ndr). Loro ci dicevano: non ci state migliorando la situazione, ce la state peggiorando, le nostre lotte lasciatele fare a noi, non venite a insegnarci la “vera cultura della libertà”. Bisogna ascoltare queste donne e supportarle, non sostituirsi a loro. Mai sostituirsi alle persone che fanno delle lotte. Ci sono donne che combattono contro i talebani e l’ISIS e che vengono uccise ogni giorno. Ma di queste donne curde nessuno ne parla, non fanno gioco al potere, perché muoiono al confine con la Turchia che è ancora oggi un’alleata strategica dell’Occidente.
La situazione in termini geopolitici è complessa. Io rispetto le lotte delle donne ovunque esse siano. Ma è importante la loro autonomia. Se domani arrivasse un video o un documento scritto e firmato da una organizzazione afghana, con delle volontà espresse, noi ci metteremmo all’opera traducendo, diffondendo e supportando, come abbiamo sempre fatto. Questo è il nostro ruolo.
Quindi il nostro compito è far conoscere all’Occidente le loro battaglie?
Sì, perché non sempre sono uguali alle nostre. Noi non possiamo essere interventiste o “colonizzatrici” e sostituirci a loro. Non sono dell’idea che ci sia un “Occidente buono” capace di insegnare a tutte le donne del mondo cosa significa essere libere. Io non saprei cosa insegnare. Vengo da un’Italia maschilista e patriarcale. Certo, ci sono delle differenze: sono potuta andare a scuola e studiare. Ma quando il femminismo dice che bisogna partire da sé, vuole dire che bisogna rispettare l’autodeterminazione delle persone, delle donne, dei popoli. Ciascuno si libera a partire dalla propria esperienza e da un obiettivo personale. La mia idea di libertà può non coincidere con la tua. Ma purtroppo esiste un colonialismo culturale diffuso. Dovremmo, invece, studiare di più e far circolare materiale sul femminismo afroamericano, sul femminismo antirazzista e su quello postcoloniale, e parlare di altri contesti. Per esempio dell’imposizione delle parole che determinano cos’è la libertà e cosa non lo è. Cos’è la salvezza. Cos’è la scelta. Questi sono concetti complessi anche in Italia, visto che ancora cerchiamo di capire cosa è libertà quando si parla di sex working: qualcuno dice che non è una libera scelta, la sex worker mi dice che sì, c’è chi viene sfruttata, ma che non è il suo caso perché lei l’ha scelto.
Noi non siamo nessuno per sostituirci alle voci altrui. Ma possiamo e dobbiamo dare spazio a quelle voci e farle arrivare il più lontano possibile. Anche questo è alla base dell’iniziativa #tuttacolpamia.
Torniamo su #tuttacolpamia. C’è qualcosa in queste storie che ti ha colpito maggiormente?
La cosa che mi ha stupito è la quantità di persone che riescono a tenere segrete cose che non avrebbero dovuto restare tali. La quantità delle violenze raccontate. Questo tema non deve mai essere rimosso dalla discussione. Non si deve esaurire col fenomeno pubblico, o con quello mediatico che si nutre di emergenzialismo e di leggi più severe. Ma delle storie non ce n’è una che mi ha colpito più delle altre. Sono tutte “ugualmente diverse”. E tragiche: ogni storia è tragica per la persona che l’ha vissuta.
Un’ultima domanda: cosa c’è oltre il muro?
È come chiedere: cosa c’è oltre un recinto? Molta aria e molto più spazio. C’è molta più gente con la quale colloquiare e confrontarsi, gente a cui stringere la mano; ci sono lingue e culture differenti e molto più spazio mentale, una delle cose di cui abbiamo un gran bisogno. Ci sono sempre muri che vengono issati affinché una parte non veda l’altra o la terra non veda il cielo. La mente viene costretta in una prigione fatta di parole e linguaggi e quello che ne viene fuori è una cultura gretta che è sempre sempre sempre la stessa. Invece abbiamo bisogno di respirare. Ecco perché sin dall’inizio abbiamo avuto l’esigenza di parlare altre lingue, o anche solo di leggerle e tradurle; era fondamentale capire quello che succedeva nel mondo fuori dal nostro recinto.
Ci autoconvinciamo del fatto che siamo sole ma non è così. Le nostre lotte in Italia sono importanti ma possono contare zero nel resto del mondo, perché ogni situazione è diversa. Tuttavia ci sono alcuni valori universali. Una delle cose che accadono ovunque è la violenza di genere: una delle costruzioni culturali che determinano il fattore di potere tra le parti – forti da un lato e deboli dall’altro – in termini di controllo sociale, economico o… controllo e basta. È una divisione fatta da chi domina e da chi viene dominato. E la parte dominata sono da sempre le donne.
Articolo a cura di Claudio Santoro