Si dice che, se si eliminano completamente i dialoghi da un film e il soggetto rimane chiaro e comprensibile, la pellicola funziona ed è un successo. È esattamente quello che succede, almeno nella prima metà, con Silent Night – il silenzio della vendetta. John Woo torna dopo vent’anni di distanza alla regia di un film americano (paycheck l’ultimo) e a sei dal suo ultimo film (Manhunt) con una pellicola che, se non considerabile rivoluzionaria è, in ogni caso, un esperimento di assoluta portata. Infatti, Silent Night è girato quasi completamente senza dialoghi, se non per sprazzi di rare battute singole. Non esistono interazioni vere e proprie tra personaggi se non filtrate tramite messaggi o video. E anche grazie ad una fantastica interpretazione di Joel Kinnaman (Suicide Squad), il regista cinese padre dell’action moderno confeziona un film d’azione riuscitissimo che assume tutto un gusto nuovo nel suo essere completamente muto, o quasi.
Silent Night: il silenzio del racconto
Il film si apre con una sequenza fantastica in cui un uomo, vestito con un maglione natalizio pieno di sangue, rincorre un’auto piena di membri di una gang locale. Riesce a fermarla ma, nella colluttazione, resta ferito alla gola da un colpo di pistola. Dopo operazioni su operazioni riesce a salvarsi, ma perde per sempre l’uso delle corde vocali. Rientrato a caso, cominciamo piano piano a capire il perché delle sue azioni e cos’era successo prima della sparatoria. Brian è deciso a vendicarsi della gang per l’uccisione del suo bambino. La vendetta dovrà avvenire esattamente nella stessa notte in cui il figlio ha persona la vita, quella della Vigilia di Natale. Inizia così il suo addestramento che dura quasi un anno: tra allenamenti fisici, al poligono e alla guida, Brian cerca vendetta. Nel più classico dei plot da revenge movie, John Woo riesce a narrare perfettamente l’intreccio senza l’uso della parola. Ed è proprio qui la differenziazione più grande: se il plot è, di per sé, debole e poco approfondito, ciò che lo rende grande sono le modalità con cui ci viene mostrato. È pura narrazione cinematografica attraverso lo sguardo della macchina da presa. E se allora lo sguardo di Brian riesce a scrutare la gerarchia della gang nei suoi appostamenti, anche noi ne diventiamo consapevoli, senza dialogo di sorta. La grandezza di Woo, in questa pellicola, più che nell’action, risiede proprio qui. Il regista cinese non sorprende più ormai quando gira un film in cui l’azione è magistralmente ripresa e orchestrata. Ma lo fa quando narra senza parlare, attraverso gesti, movimenti ed espressioni che valgono più di mille parole.
John Woo e l’action
Senza John Woo il cinema come lo conosciamo oggi non esisterebbe. È grazie a lui se esiste l’action moderno. Non avremmo mai visto Matrix, John Wick o Mission Impossible. È, probabilmente, uno dei più importanti ed influenti registi viventi. E lo è stato fin da prima di approdare ad Hollywood. L’onda del cinema di Hong Kong negli anni Novanta era capitanata dalla sua ingombrante figura. E se per lo spettatore medio alcune sequenze di Silent Night possono sembrare strane o forzate (l’allenamento di otto mesi del protagonista, effettivamente, forzato lo è) per chi conosce il regista sa che questi sono i suoi marchi di fabbrica. E lo sono un po’ per tutto il cinema orientale. L’azione che assomiglia ad una danza, l’enorme uso di violenza e sangue, sono tutto ciò che Woo ha sempre mostrato magnificamente. E quando l’oriente si trasla all’interno di Hollywood, si crea un sincretismo di difficile interpretazione, ma che di certo non lascia indifferenti. Soprattutto quando si parla di John Woo.
Alessandro Libianchi
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