Nel redigere la recensione di Kena Bridge of Spirits, ho dovuto confrontarmi con l’annosa domanda che tutti gli amanti dei videogiochi si pongono da sempre. Con la questione che divide maggiormente fandom di generi diversissimi, di titoli che non hanno nulla a che fare gli uni con gli altri, se non per una questione: una volta conclusi, desideri averne ancora. Arrivati ai titoli di coda, per così dire, di Kena Bridge of Spirits si è vissuta un’esperienza completa e soddisfacente, sia narrativamente che in termini di gameplay. Il mondo di gioco articolato e vario ci ha colpiti con panorami notevoli, scorci nascosti e dettagli quasi invisibili, eppure presenti e che, una volta messi in evidenza, fanno la differenza.
Ma Kena Bridge of Spirits dura all’incirca nove ore. Dieci, per i più temerari che giocheranno in modalità “difficile” fin dall’inizio. E allora eccola la domanda delle domande videoludiche: quanto deve durare un gioco per essere soddisfacente? Che significa soddisfacente? E perchè Kena è tanto soddisfacente, quanto frustrante, nel suo essere di una durata che definirei perfetta per raccontare la sua storia?
Kena Bridge of Spirits Recensione, narrami di adorabili spiritelli e mostri pazzeschi
Probabilmente, tanto per cominciare, perchè all’inizio e alla fine del racconto di Kena, la protagonista, sappiamo più o meno le stesse cose. Ben pochi pezzi di un puzzle potenzialmente infinito si aggiungono al diorama della lore di Kena; laddove, invece, le vicende che viviamo interpretandola e aiutandola nella sua missione sciamanica sono ben più autoconclusive e dettagliate. L’ho percepito, e so che è così: è stata una scelta ragionata.
I talentuosi developer di Ember Labs hanno deliberatamente scelto di raccontare una storia composta di situazioni antologiche, in cui Kena appare come un Deus ex Machina, risolve la situazione, e poi scompare (una struttura condivisa da molti anime/cartoni/film); pronta per risolvere una nuova missione in stile Renegade (ma senza la moto). Così, la storia CON Kena dura esattamente quanto deve durare. Non annoia il giocatore con distanze eccessivamente vuote tra punti di interesse; e si caratterizza per ritmi quasi cinematografici, dove una situazione si sostituisce alla precedente in un continuo incedere di rivelazioni, domande, risposte, un colpo di scena qua e là, e via al prossimo settore della mappa.
Ogni mostro che sconfiggiamo racconta la storia di chi/cosa lo ha generato, e rimane impresso nella nostra mente per via di un design che non si va a sovrapporre a migliaia di altri, in una storia che dura 100 ore. Ma che, invece, costituisce un album di tanti, ma non incontabili, diversi, ma mai irriconoscibili o alienati dal contesto, monster design tratti da un gioco da 9 ore. Però, è innegabile: la storia DI Kena, invece, resta tragicamente non raccontata; suscitando una certa frustrazione in noi giocatori, che non vedevamo l’ora di saperne di più sulla carismatica guida degli spiriti. A questo punto, un sequel sarebbe d’obbligo. No pressure eh…
Espressioni facciali (<3)
Quando Kena compie un attacco, la sua espressione facciale si modifica per indicare lo sforzo. E ogni tipo di attacco, pesante, leggero, parry o parata, corrisponde a una espressione facciale differente (e sempre naturale). Questa caratteristica si inserisce in un quadro artistico generale che “strizza l’occhio” (appunto) all’animazione occidentale tipica Pixar o Dreamworks, riconoscibile in particolare nelle cutscene magistralmente dirette, orchestrate e la cui fotografia fa quasi recensione a sè. E se a questa consapevolezza sommate un setting orientaleggiante, e un sistema di combattimento action, con innesti platform/enigmi alla The Legend of Zelda, ecco che gli ingredienti del successo di Kena Bridge of Spirits sono manifesti. Se Dark Souls, per intenderci, è il fantasy occidentale interpretato dai giapponesi, Kena è l’action adventure giapponese passato attraverso il filtro ottico (estetico, artistico, ritmico) occidentale.
Addio, quindi, a complessi e ramificati (e nipponici) alberi delle abilità, delle combo, delle magie, del mana e chi più ne ha più ne metta. Benvenuto, invece, sistema di combattimento semplice ma efficace, con attacco pesante, attacco leggero e combo a tre colpi. Persino il parry e la parata seguono logiche più occidentali, mentre tutte, o quasi, le abilità speciali sono demandate allo sfruttamento simil-Pikmin dei Rot; spiriti della natura che Kena colleziona in cambio di coccole, allegri balletti e… cappelli. Con i quali personalizziamo l’apparenza estetica dei Rot, altrimenti molto simili ai “nerini del buio” Ghibleschi.
Kena Bridge of Spirits Recensione, La “grande” bellezza del “piccolo”
„La densità e la rarefazione si alternano armoniosamente. Questo è un aspetto essenziale di Zelda. Più si perde la corrispondenza tra i due, più il gioco si svuota. Oppure un contenuto di gioco rischia di interferire con altri, rovinandoli. E diventa davvero difficile riuscire a tenere tutto quanto sotto controllo.“ — Shigeru Miyamoto
„Per essere divertente un gioco deve essere sempre facile da capire: deve bastare uno sguardo per comprendere immediatamente cosa fare. Deve essere strutturato in modo da intuire lo scopo del gioco a prima vista e poi, se non ce la fai a superare la prova, te la prendi con te stesso e non con il gioco. Inoltre, deve essere divertente anche per chi ti sta intorno e ti guarda giocare.“ — Shigeru Miyamoto
Queste due citazioni del celebre Shigeru Miyamoto sono state, evidentemente, di grande ispirazione per l’Ember Lab. Kena Bridge of Spirits, infatti, non ti prende quasi mai per mano; mentre, contemporaneamente, ti dirige sempre, in silenzio, verso il tuo prossimo obiettivo sulla mappa. Gli enigmi da superare richiedono intelligenza per comprendere le meccaniche, osservazione per individuare i trigger e infine abilità manuale per collegare il tutto. Legandosi meravigliosamente, quindi, con il mondo di gioco iper-dettagliato, che sa quando nascondere, e quando mostrare. Proprio come un gioco di Miyamoto, quindi, Kena è stimolante perchè non è impossibile, ma impegnativo. Divertente. Certo, almeno finchè non iniziano determinati scontri…
Difficile
Se volete godervi il gioco più a lungo possibile, vi consiglio vivamente di giocare al massimo della difficoltà disponibile all’accensione. Un nuovo livello ancora più tosto sarà sbloccato solo in seguito, per i più temerari e appassionati. Giocare Kena Bridge of Spirits anche solo a normale, infatti, lo priva di alcuni dei momenti più intensi e soddisfacenti: gli scontri contro i Boss e i Mini Boss. Tutti, a prescindere dalla difficoltà, caratterizzati, unici, da portare a termine sfruttando peculiarità ambientali, meccaniche singolari e, questo sì solo a modalità difficile, tanto sudore.
I comandi sono sempre responsivi in Kena, sia che giochiate su PS5 in modalità 4k nativi (a 30 fps), che, ovviamente, se opterete per i 60fps con 4k upscalati. Pertanto, gestione della telecamera libera a parte (ma quella è il cruccio di OGNI gioco action da sempre) Kena è sempre “fair” e onesto con voi. La difficoltà artificiale non è un difetto di Kena, che opta, nell’aumento della difficoltà, per la rimozione di alcune meccaniche “comode”, ma obiettivamente OP. Per usare i vostri Rot in battaglia, infatti, dovete riempire una barra del “coraggio”. Semplicemente, a modalità difficile, l’unico modo per ricaricarla è attaccare noi per primi i nemici. A normale basta difendersi, e a facile la ricarica è automatica.
Questo elementare, piccolo cambio di meccanica è però super efficace. Perché vi costringe ad essere sempre la parte attiva dello scontro, pena un handicap (il mancato uso dei Rot) molto pesante. Quindi: Kena è difficile? No, come non lo è Dark Souls. ESATTAMENTE come il lontano cugino, anche Kena richiede solo che voi comprendiate come sfruttare al meglio i semplici comandi messi a vostra disposizione. E, chiaro, che osserviate con perizia il nemico, per capire il suo moveset, i suoi punti deboli, e quelli di forza. Non è un gioco di dita, non solo almeno: è prima di tutto un gioco di testa.
Kena Bridge of Spirits Recensione, in conclusione: e poi?
Terminato il viaggio di questa recensione di Kena Bridge of SPirits, la mia speranza è che vi convinciate ad acquistare il titolo, e a iniziare un altro pellegrinaggio, stavolta videoludico, nel suo piccolo, delizioso (ma insidioso a volte) Open World. Avete mai mangiato un piatto così buono da volerne ancora, pur sentendovi pieni? E avete mai provato a mangiarne ancora, nonostante la pienezza? Commettereste un errore, ve lo anticipo.
Ci sono opere, videogiochi, film, fumetti, manga, pensati e studiati per non finire mai. Struttura ludica, narrazione, meccaniche, tutto è ragionato per far leva sulle preferenze di giocatori a cui piace “non finire mai”, e incedere per sempre. Kena non è uno di quei titoli. Invece, l’action di Ember Lab vi racconterà una storia tra il fiabesco e l’eroico; sospesa su temi, ambientazioni e meccaniche nipponiche, messe in scena da art direction e tecniche occidentali. Vivetelo così: come un piacere effimero. La conclusione non vi deluderà, così come la strada percorsa per arrivarci. Se, poi, il successo del primo capitolo dovesse portare a un secondo, ci troverà pronti ad accoglierlo a braccia aperte, e cuore disteso. Sicuri che Kena, ancora una volta, saprà traghettare le nostre inquietudini su un differente piano dell’esistenza; lontane da noi.
KENA BRIDGE OF SPIRITS RECENSIONE | TESTATO SU PS5
+Compatto: dura abbastanza per soddisfare, senza essere un classico Open World da 30 ore
+Direzione Artistica da urlo, cut scene cinematografiche e trama che fanno sperare in un sequel
+A difficoltà elevate è impegnativo e soddisfacente, le Boss fight sono una migliore dell’altra
+Level design ed enigmi/platform ben congegnati
+Su PS5 le modalità disponibili (e l’uso del DualSense) sono entrambe fluidissime
-Qualche incertezza tecnica e telecamera problematica
-A difficoltà normale gli scontri sono molto banalizzati
-Approfondire la storia della protagonista avrebbe giovato all’immersione nella storia