“Barry Lyndon“, nel novero dei film di Stanley Kubrick, passa spesso in secondo piano quando si pensa alle due opere che lo precedettero: “2001, Odissea nello spazio” e “Arancia Meccanica” (di cui qui trovate una nostra retrospettiva). Del resto, analizzando in sé la carriera del maestro inglese sino ad allora, la messinscena di un’opera tanto lunga e ambientata nel vetusto Settecento appare spiazzante per chiunque, anche a distanza di tutti questi anni.
Eppure è forse in “Barry Lyndon” che si riescono a raggiungere le vette del cinema di Kubrick. Un’opera magna della sua grammatica, della sua meticolosità e, al contempo, del suo genio creativo. Ciononostante, la domanda sul perché ci siamo spinti a definirla così è d’obbilgo e, di conseguenza, la risposta merita un’accurata analisi che, come al solito, faremo partendo dalla trama.
Trama di “Barry Lyndon”
L’opera, ripercorrendo il romanzo “Le Memorie di Barry Lyndon“, scritto da William Makepeace Thackeray, romanzo del 1844, narra le vicende del giovane irlandese Redmond Barry, nato da una famiglia appartenente alla classe contadina. La sua è la storia di un uomo impetuoso, pronto a tutto pur di difendere il suo onore, anche a costo di sfidare a duello il capitano John Quin, promesso sposo alla cugina di Redmond, Nora Brady. Proprio a seguito del presunto omicidio di Quin – poi smentito giacché il proiettile della pistola era stato sostituito con uno di stoppa -, Redmond si ritrova a girovagare per l’Europa, dapprima unendosi all’esercito inglese per poi disertare. L’arresto da parte degli alleati prussiani durante la Guerra dei Sette Anni, gli impone di unirsi presso l’esercito teutonico per poi, in seguito, tradirlo e unirsi a De Balibari, un gentiluomo che si finge francese ma che i prussiani sanno essere un infiltrato irlandese.
Dopo aver ottenuto una cospicua somma come giocatore d’azzardo professionista, adocchia la bella e infelice Lady Lyndon, donna sposata al cagionevole sir Charles Reginald, il quale muore poco dopo. Presa in sposa la donna e adottato il rinomato cognome Lyndon, Barry dilapiderà gran parte del patrimonio posseduto dall’importante casata rincorrendo il sogno di ottenere la tanto agognata carica nobiliare. Tuttavia, i dissidi con il figlio di lei e di sir Charles, lord Bullington, si metteranno tra lui e il suo desiderio, tanto che, alla fine, dopo una sfida a duello persa contro il Lord, Barry si ritroverà contro tutti i membri del casato, rimanendo in povertà, senza la sua amata – e ormai depressa per la morte del secondogenito avuto con Barry – e, nondimeno, senza una gamba.
Un excursus prima di “Barry Lyndon”
Per rispondere alla precedente domanda, mettiamo indietro gli orologi di qualche anno. Quali erano state le opere sin lì dirette dal maestro ad aver destato maggior scalpore? Il noir “Rapina a Mano Armata” (1956); “Orizzonti di Gloria” (1957) film simbolo della Grande Guerra; “Spartacus” (1960), l’immersione di Kubrick nel genere peplum, tanto in voga in quegli anni; “Lolita” (1962), la trasposizione di uno dei più controversi romanzi di marca sovietica; “Il Dottor Stranamore” (1964), grottesca reinterpretazione della guerra fredda; e i già citati “2001” e “Arancia Meccanica“, film che revisionano la fantascienza e la fantapolitica. Ecco, leggendo questa lista, cosa balza subito agli occhi? Il trasformismo del vecchio Stanley e la sua capacità di sapersi appropriare dei generi cinematografici.
Tuttavia, ponendo l’accento sulle tematiche trattate nei succitati film, emergeva come l’analizzare i mali della società – da un punto di vista tanto interno quanto esterno – fosse l’idea ancestrale alla base della poetica kubrickiana. “Arancia Meccanica“, con il suo malsano protagonista dedito al sesso e alla violenza, la quale, a sua volta, gli si “ritorce” contro, ne rappresentava l’apogeo. In “Barry Lyndon“, nulla di tutto questo appare come pienamente visibile, eppure è qui che, come dichiarato dallo stesso regista, egli poté mettere in atto tutti i suoi interessi: a conti fatti, è questa l’opera che esprime la maggior libertà narrativa e registica di Kubrick, anche – all’apparenza – a dispetto dei temi che il più delle volte gli erano affibbiati.
Una frase che spiega il perché di “Barry Lyndon”
Tuttavia, un’unica frase presente in questo film dovrebbe denotare le reali intenzioni che si celavano dietro la stesura di questo copione tanto ambizioso: “Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali“. Ecco, la chiosa scritta su fondo nero, annichilisce formalmente ogni discussione sulle reali intenzioni tematiche di Kubrick: non è realmente cambiato nulla da “Arancia Meccanica” dal punto di vista progettuale, ma solo da quello estetico.
“Barry Lyndon” è l’espressione estetica di un concetto sempre caro a Kubrick: l’eterno dissidio tra la sua personalità misantropa e quella filantropa. La sua volontà di esprimere il suo odio verso la natura umana, tanto quanto quella di cambiarla. Laddove la superba critica alle istituzioni violente e repressive di “Arancia Meccanica”, capaci di generare altrettanta violenza, si fa presente, in “Barry Lyndon” essa rivive nel passato. In un passato lontano, sia per usi che per costumi – meravigliosi costumi che gli valsero un Oscar -, ma, sotto molti aspetti, così vicino al nostro presente. Il classismo, le disparità, ecc., sono tutte tematiche presenti tanto in “Arancia Meccanica” quanto in “Barry Lyndon”, e lo si percepisce sin dalle primissime scene.
La stessa critica posta nei confronti della Guerra dei Sette Anni, considerata come un insieme di eserciti che battagliavano senza neppure sapere perché, va obbligatoriamente accostata ad “Orizzonti di Gloria” e, se possibile, ancor di più a “Il Dottor Stranamore“, nel quale l’intera vicenda bellica riceve un trattamento volutamente grottesco e picaresco.
Una narrazione del genere, quasi manzoniana, apre a un mucchio di possibili e logiche interpretazioni: l’umanità che cambia l’estetica degli usi, dei modi di fare e dell’apparenza – i nei posticci applicati sul volto come era di moda nel ‘700, in alcuni casi appaiono volutamente esasperati -, ma rimane sempre la stessa. Cambiano gli scenari bellici, le terre patrie, l’abbigliamento, il modo in cui gli interessi economici e politici sono percepiti, ma mai cambieranno gli scopi reconditi. “Barry Lyndon” è la testimonianza del perché Stanley Kubrick, nel profondo, detestasse la natura umana.
Le note tecniche
Il perfezionismo kubrickiano lo si conosce, non servirebbe ribadirlo, eppure repetita iuvant. Per prima cosa, le inquadrature, poiché facenti uso di svariati riferimenti pittorici, appaiono esteticamente impeccabili. Su questo punto vogliamo fare un’ulteriore disamina. Di fatto, la scrittura visionaria di Kubrick giunse negli Stati Uniti come una sorta di non plus ultra per i cineasti hollywoodiani, in quel tempo impegnati con la grande stagione della new Hollywood. Tuttavia, lo studio di inquadrature ricalcanti quasi dei dipinti in stile neoclassico, non era una sola prerogativa del vecchio Stanley, poiché, com’è ben noto, apparteneva ai registi del vecchio Continente, su tutti: Ingmar Bergman e Andrej Tarkovskij.
Ciononostante, tramite un oculato studio dell’estetica durato più di due anni, Kubrick mise in scena un’autentica galleria d’arte settecentesca, servendosi oltretutto di illuminazione naturale, o, al più, di candele e lampade a olio. Formalmente, la scelta di fissare la camera rifacendosi al cinema sperimentale degli europei, si era già introdotta in “2001” e aveva trovato già più ampia espressione con “Arancia Meccanica“. Tuttavia, sarà proprio grazie a “Barry Lyndon” che vedrà l’apice, sfociando a sua volta in “Shining” (1980), film che può vantare altrettanto perfezionismo visivo.
A conclusione di questa nostra disamina, vogliamo comunque spendere due parole sull’impossibilità di trovare un vero e proprio film “summa” di Stanley Kubrick, poiché, anche grazie alla sua meticolosità, alla sua inventiva nell’appropriarsi di nuovi stratagemmi narrativi, chiunque potrà sempre definire questo o quell’altro il suo film più rappresentativo, proprio per la grandezza e la magnificenza della gran parte delle sue opere.
MANUEL DI MAGGIO