La città femminista, una città a misura di tuttə, un luogo in cui le persone siano realmente libere di muoversi ed esprimersi, è possibile? Pensiamo ad un luogo sicuro in cui ognuno vive i luoghi pubblici nel rispetto degli altri. Pensiamo ad un mondo ideale dove si parta dal presupposto che abbattere le disuguaglianze sia la priorità, dove ai tavoli di confronto con le istituzioni non partecipino solo le organizzazioni di categoria ma, anche, le organizzazioni “di genere”. Un nuovo mondo dove angoli bui delle strade e delle menti siano illuminati, dove nei bagni pubblici ci siano, ad esempio, assorbenti distribuiti gratuitamente. Una nuova città in cui le donne e le mamme non siano discriminate sul lavoro ed indipendentemente dalla razza. Una risposta la troviamo nel libro “La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini“, ultimo lavoro di Leslie Kern, docente di Geografia e Ambiente e direttore degli Studi sulle donne e sul genere presso la Mount Allison University (Canada).

La città femminista, una nuova geografia urbana

L’analisi della Kern parte dal presupposto che l’esperienza che hanno delle città uomini e donne è profondamente diversa. Occorre, quindi, individuare le zone d’ombra delle città in cui viviamo. Porsi, poi, domande su come renderle luoghi di vita comune che accolgano tutte le esistenze: come si arriva alla città femminista?

Rimozione di ostacoli

In primo luogo si prendono in considerazione tutti i luoghi che divengono proibitivi con un passeggino o una sedia rotelle. La rimozione di ogni ostacolo è una questione di rispetto basilare. Rispetto per le persone che necessitano di questi mezzi ma, anche per la persona che di questi ultimi si prende cura che nella maggior parte dei casi è una donna. Kern sottolinea però la necessità che tutti gli sforzi per rendere le città a misura di tuttə si accompagnino ad un cambio di mentalità. Occorre perseguire un riequilibrio delle disuguaglianze anche nel lavoro domestico e nell’accudimento. In proposito la docente sottolinea:

“La città femminista mette al centro l’assistenza, non perché debba rimanere un lavoro esclusivamente da donne, ma perché la città ha il potenziale per ripartirla in modo più uniforme”

la città femminista
La città femminista- Photo Credit: web

Città più sicura non vuol dire maggiormente presidiata dalle forze dell’ordine

Ognuno di noi è bombardato dagli episodi di cronaca che vedono coinvolte le donne. Al di là della questione, sterile quanto offensiva, sul “come eri vestita”, qualunque donna sola per strada di notte ha fatto finta almeno una volta di parlare al cellulare. Sul punto Lisa Kern spiega:

“Il lavoro qualitativo femminista sulla paura delle donne nelle città rivela quelli che sembrano problemi contraddittori e insormontabili: le donne hanno paura negli spazi chiusi e aperti, nei luoghi affollati e in quelli deserti; sui mezzi di trasporto e mentre vanno a piedi; sole sotto una luce intensa o invisibili nel buio. Gli strumenti prediletti per rendere più sicure le strade, nell’era urbanistica neoliberista, come l’aumento della sorveglianza statale e aziendale, la polizia militarizzata e la privatizzazione dello spazio pubblico, hanno la stessa probabilità di diminuire la sicurezza per gli altri. Allo stesso modo, queste misure fanno poco o nulla per affrontare la più grande minaccia per la sicurezza delle donne, vale a dire la violenza negli spazi privati”.

L’analisi di Lisa Kern mostra come, di fatto, viviamo in città che sono “l’iscrizione in pietra, mattoni, vetro e cemento del patriarcato”. Viviamo in città pronte a soddisfare i bisogni di maschi cis abili ma che tengono poco o nulla in considerazione i bisogni di tutti gli altri. Attenzione, però, perchè pensare ad una città femminista non vuol dire rendere le città per le donne quello che oggi sono per gli uomini. Occorre assumere una prospettiva intersezionale, la stessa che il femminismo attuale applica a ogni sua lotta. L’assunto fondamentale è che la città da immaginare sia a misura di tuttə, incluse le minoranze storicamente oppresse.

E allora cosa bisognerebbe fare?

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“Non voglio che una super-pianificatrice femminista- scrive Lisa Kern- demolisca tutto e ricominci da zero. Ma se iniziamo a capire che la città è impostata per sostenere un particolare modo di organizzare la società possiamo iniziare a cercare nuove possibilità. Ci sono piccole città femministe che spuntano ovunque nei quartieri, se solo riuscissimo a riconoscerle e nutrirle. La città femminista è un esperimento continuo per vivere in modo diverso, migliore e più giusto in un mondo urbano”.

Il primo passo da compiere, allora, è comprendere chi è stato escluso dal processo di creazione e sviluppo urbano. È anche necessario superare la prospettiva di genere, il razzismo, l’abilismo, il capitalismo, l’omobitransfobia. Occorre ascoltare le esperienze di chi sperimenta le disuguaglianze come donne immigrate o con disabilità, madri single, persone senzatetto o appartenenti alla comunità lgbtq. Bisogna creare una rete di assistenza all’infanzia che aiuti la carriera di una madre della classe media ma che permetta di trovare un lavoro anche a una donna immigrata. La città femminista così descritta è possibile e realizzabile, a patto che la società tutta finalmente rivendichi un’uguaglianza che sia realmente sostanziale.

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