Da quando ne ho ricordo, diventare madre è considerata un’esperienza che completa la tua identità personale, definendoti come donna in quanto tale. Soprattutto chi, come me, proviene dal Sud, sa che diventare madre non è uno dei momenti più importanti della vita, ma il momento più importante. Che sia un percorso colmo di disagi non importa, a prevalere sono comunque le gioie. Una rappresentazione positiva del ruolo materno che crea aspettative irrealistiche per la maternità, quella cioè di pensarla solo come un’esperienza appagante. Perché diventare madre è prima di tutto un “dono” di Dio, e tu devi esserne grato. Anche nei famosi casi in cui capita. Per questo nei confronti di molte delle donne che non hanno figli si manifesta spesso compassione. Così come la preoccupazione principale di molte donne non ‘sistemate’, quando non già rassegnate, è quella di doversi sbrigare perché altrimenti impossibilitate a procreare: è il ticchettio minaccioso del loro “orologio biologico” che scatta al raggiungimento dei 30 anni. Come se fosse un meccanismo scontato e automatico: “I bambini sanno nascere, le donne sanno partorire”, dice una celebre frase. Una capacità che connota tutte indistintamente come madri. Se hai una vagina sogni il momento in cui ti realizzerai come madre. E questo non fa che avallare l’esistenza di quel fantomatico “istinto di maternità”. Tanto che, quando mi capita, seppure ironicamente, di dire che non voglio dei figli, lo sguardo dell’interlocutore è sempre agnostico, perché la frase in sé non viene presa sul serio, ma soprattutto perché sono troppo giovane per poterlo pensare. Che io ami o detesti i bambini adesso non importa, quando arriverà il momento – perché arriverà – sentirò un trasporto innato, un desidero irreprimibile. Nessuno mette mai in dubbio che possa esistere qualcuno che non ne senta il bisogno. Perché non avere figli vuol dire ‘avere un problema’, tipo essere sterile, oppure che sei una suora, o ancora che sei ‘sfortunata’, quindi un’attempata zitella. In ogni caso sei diversa dalle altre. “Magari non ne voleva” rende anche chi lo dice un mostro. Perché non volere figli vuol dire essere una donna egoista e anaffettiva nei confronti dell’intera umanità. Una specie di alinea che non ha ottemperato al suo ruolo di fattrice, destinata a restare sola per sempre, perché una coppia felice senza figli non rientra nelle favole con il lieto fine. Anzi, a volte sono proprio i figli che ti ‘salvano’, fino a quando non ti rendi conto che essere madre te lo sei imposto esattamente come amare il tuo compagno.
Non c’è nessun istinto materno
Parlare, quindi, di persone childfree è ancora un tabù. Questo termine, diffusosi nel nostro Paese con un ritardo di almeno 10-15 anni rispetto agli Usa, si riferisce a tutte quelle donne, ma anche uomini, che non vogliono diventare genitori. Significativamente indica non l’assenza o la privazione dai figli, ma la libertà da essi. L’idea è quella di voler difendere una scelta di vita pari alle altre, rivendicando e contemporaneamente rispondendo al bisogno di voler ‘uscire allo scoperto’. Perché chi non vuole avere figli esiste, e vuole anche poterlo dire senza necessariamente giustificarsi. Come accaduto, di recente, a Jennifer Antiston, l’attrice che, insieme a tante altre, ha sempre difeso il suo diritto a non essere madre. Già nel 2016, in una lettera aperta, denunciava il pregiudizio sociale, “l’idea che le donne in qualche modo siano incomplete, non riuscite, o infelici se non sono sposate con bambini”, sottolineando che non esiste “il bisogno di spostarsi” o di “essere madri” per essere complete. “Siamo noi che decidiamo per noi stesse il nostro e vissero felici e contente”, scriveva. Eppure, a cinque anni di distanza da quella missiva, l’attrice si vede nuovamente costretta a sventolare la bandiera childfree per smentire tutte quelle voci che la vedono in procinto di avviare pratiche per adottare un bambino. Perché, come nella maggior parte dei casi, l’idea che non avere figli sia un scelta autonoma e consapevole non è concepita, viene rifiutata perché smonta gli ideali di ‘donna perfetta’. Ma, in questo caso, il lieto fine è che la Aniston è felice e non madre. C’è solo da accettarlo.
Il fenomeno childfree
Secondo la demografa dell’università di Padova, Maria Letizia Tanturri, il fenomeno “childfree” si è diffuso per due principali ragioni: uno legato alla rivoluzione industriale, a partire dalla quale la fecondità inizia ad essere controllata, “si comincia a non avere più tanti figli quanti ne arrivano, ma a distanziare e a posticipare la nascita del primo figlio”; l’altro legato al processo di emancipazione femminile, attraverso il quale si è contribuito a diffondere l’immaginario per cui “la maternità non è un destino”. Eppure il pregiudizio verso chi non vuole avere dei figli è ancora presente nella nostra società. E non poteva essere altrimenti. In un Paese in cui si paragona l’aborto ad un omicidio o si fanno campagne pubblicitarie come quella del Fertility Day, dove la fecondazione viene considerata come “bene comune”, un bisogno sociale, è chiaro che qualsiasi discorso sulla maternità rimane impregnato di moralismi. Così chi non crede in questo istinto di maternità naturale è soggetto a sensi di colpa, inadeguatezza e giudizio. Ma la verità è che quello dell’istinto di maternità è solo un mito. Una bella favola, appunto, in cui dovevamo per forza credere tutti. La definizione psicologica lo concepisce come “una capacità innata di connettersi emotivamente col bambino”. Ma allora come si spiega l’incidenza di stati d’animo quali la depressione post-parto? Perché anche in chi vuole figli, partorire il bambino non dà per scontato la connessione istantanea con esso. L’abilità di allevare i propri figli non è qualcosa che possediamo automaticamente subito dopo la sua nascita. Sono cose che impariamo assumendo il ruolo di madri, attraverso i modelli culturali e nel processo di socializzazione. Sicuramente, ogni donna cerca di fare del proprio meglio per prendersi cura del proprio figlio: più se ne prende cura più inizia ad amarlo. Ma questo prescinde dalle madri, riguarda qualsiasi persona abbia a che fare con un bambino. Secondo la professoressa di psicologia Paula Nicolson, l’inclinazione delle donne verso un ruolo materno è condizionato da fattori sociali e pressioni della società. Noi siamo notoriamente suscettibili all’influenza degli altri. I media stessi sono inondati dall’immagine della donna madre e casalinga. Una visione che se non è per forza negativa, produce comunque degli stereotipi e conseguentemente delle forme di discriminazione nei confronti di chi in quel quadretto non vuol rientrare. Il “sesto senso”, dunque, non esiste. Non c’è nessun istinto naturale. Ed anche diventare madre è qualcosa che avviene gradualmente, non è naturale, neanche per chi diventa madre concretamente. Alcune, ad esempio, si stupiscono di non aver provato quella ‘forte emozione’, quell’istinto materno innato, ma perché – come spiega la psicologa – entrare nella maternità è un processo che si costruisce e dipende da diverse variabili, emotive e sociali. Essere madre è un’abilità che si sviluppa nel processo stesso.
La diffusione di donne che scelgono di non procreare, va detto, è legata anche all’incertezza sociale. “Mettere al mondo un figlio tra lavoro precario, grave crisi di orientamento, in un mondo tecnicamente progredito, perfettamente privo di scopo e moralmente incerto non è cosa facile”, sostiene il sociologo Franco Ferrarotti. In quest’ottica, la pandemia ha aggravato la situazione, generando ulteriore incertezza sul futuro e contribuendo ad una maggiore percezione della crisi. Ma non avere figli è anche una scelta che può dipendere da motivi professionali, così come dalla voglia di vivere solo la vita di coppia, o dalla paura derivante dal fatto che “un figlio è per sempre”: un assunto che, secondo lo psicoanalista Roberto Pani “può angosciare le donne childfree, soprattutto se tramandato di madre in figlia attraverso la comunicazione emotiva”.
La scrittrice americana Megan Daum ha pubblicato nel 2015 un libro intitolato Egoisti, superficiali ed egocentrici: sedici scrittori sulla decisione di non avere figli. Decisamente provocatorio, il libro consiste in una raccolta di saggi scritti da persone che, per motivi diversi, hanno scelto di non avere figli. Lo scopo è quello di far cadere i tanti pregiudizi derivanti dalla cultura in cui la famiglia è l’unico nucleo che garantisce la coesione sociale. “Il mio non è un libro contro i genitori – ha dichiarato la Daum – ma contro l’idea che non si possa parlare liberamente di questa decisione“. Il New York Times ha presentato il libro attribuendo le motivazioni raccontate dagli autori a cambiamenti sociali forti, tra cui il rifiuto del modello di famiglia nelle classi medio-alte degli Usa, frutto della disuguaglianza presente nel sistema newyorkese, per cui essere genitori è “uno sport competitivo e consumistico”. Negli ultimi anni, infatti, il movimento childfree è cresciuto in maniera significativa. Anche in Italia, dove la discussione sul tema è stata sollevata dal movimento Lunàdigas, per dare voce a tutte quelle donne che scelgono di non avere figli, e puntando i riflettori su un modo poco esplorato, “oltre ogni pregiudizio”. Come spiegato sul loro sito, “La parola “lunàdigas” viene dalla lingua sarda ed è usata dai pastori per definire le pecore che in certe stagioni non si riproducono”. In assenza di un termine nella lingua italiana che non identifichi le donne che non vogliono riprodursi solo attraverso negazioni (“non madre”, “senza figli”) ne hanno scelta una che “afferma e conferma, con autoironia, l’esistenza e l’identità di quelle donne che si sentono complete anche senza aver messo al mondo dei bambini, sfidando stereotipi, luoghi comuni e sensi di colpa”.
Che il desiderio di avere un figlio esista è certo, ed è un qualcosa di profondo ed emozionante. Considerarlo come uno dei momenti più belli della propria vita è più che legittimo. Allo stesso modo, è vero che il contatto tra madre e figlio crea un vincolo speciale, un sentimento di protezione che affiora in molte donne. Ma che col tempo ha contribuito a diffondere l’idea per cui “madri si nasce”. Anche la psicoanalisi ritiene che il desiderio di avere un figlio non risponde ad un bisogno vitale della donna, ma che si tratti invece di una necessità specifica per ognuna, che dipende dalla loro mentalità e dal modo di vivere la vita. Molte donne scelgono di rinunciare alla maternità, ma questo non vuol dire rinunciare anche al diritto di non subire il giudizio di chi ancora pensa che la maternità sia l’unica scelta possibile. Con buona pace di tutti, si può essere non madri e felici.
Francesca Perrotta