La censura su Instagram contro la Palestina è evidente: il social aggiunto la parola terrorista nelle biografie dei palestinesi dicendo che “è stato un errore”

Non è la prima volta che Instagram oscura, censura, manipola i contenuyti che riguardano la Palestina. Questo è inaccettabile: due anni fa la Human Rights Watch aveva segnalato che erano stati oscurati contenuti filo-palestinesi. Ma questo cosa significa, in definitiva? Che i social non sono mai stati pronti a gestire la guerra tra Israele e Hamas, considerato anche che non è loro compito. Quel che però è inaccettabile è che inaccettabile è che stanno adottando una censura preventiva palese ed evidente. Questo atteggiamento, così chiaro da sembrare quasi sfacciato, apre un problema enorme si un altro argomento: il diritto all’informazione.

La palese censura di Instagram contro la Palestina:

Domenica un utente, @khanman1996 (lo ha notato fanpage) decide di cambiare la sua biografia Instagram. Scrive

“sono palestinese”

aggiunge l’emoticon della bandiera della Palestina e poi “alhamdulillah” tradotto: “Lode a Dio“. Dopo aver aggiornato il profilo clicca su traduzione ed ecco che appare:

“Lode a Dio, i terroristi palestinesi stanno combattendo per la loro libertà”

In realtà l’utente non è palestinese e la sua biografia è una trappola. Ha deciso di fare la prova del nove dopo che un suo amico gli ha segnalato un problema che diversi palestinesi hanno notato. Non si tratta di un semplice errore di traduzione. Senza contare il problema dello shadowban.

Sulle maggiori piattaforme social, da giorni, moltissimi utenti tra cui attivisti e giornalisti, hanno notato uno strano andamento tra le visualizzazioni dei loro post e storie su Instagram. Ovviamente questo riguarda solo le pubblicazioni in cui parlano delle difficoltà e atrocità che stanno subendo i territori palestinesi e israeliani. In particolare, sembrano essere presi di mira soprattutto gli account che esprimono vicinanza alla causa palestinese.

Lo “shadowban” è la pratica con la quale i social mettono in ombra determinati account. Non è un’esclusione vera e propria dalla piattaforma, ma un oscuramento temporaneo per cui l’account diventa praticamente inesistente e invisibile.

Le scuse del social sono totalmente inutili:

Meta ora si è scusato per aver aggiunto la parola terrorista nelle biografie degli account palestinesi. 

“Abbiamo risolto un problema legato alle traduzioni arabe inappropriate in alcuni dei nostri prodotti. Ci scusiamo sinceramente per ciò che è accaduto”

ha detto il portavoce.

Fahad Ali, segretario di Electronic Frontiers Australia, di origini palestinesi, ha spiegato che nonostante le scuse non è ancora chiaro cosa sia successo:

“Siamo davvero preoccupati per questi pregiudizi digitali ed è necessario capire come è stato possibile. È un problema dei sistemi di automazione, dei set di formazione, deriva dal fattore umano? Non c’è chiarezza, e Meta dovrà spiegare cosa è successo”

Lo shadowban molto sospetto sui social:

A questo poi si aggiunge, come dicevamo, che diversi profili pro Palestina sono stati bannati o oscurati, anche noi abbiamo provato a farci bloccare da Instagram inserendo alcune parole chiave come Gaza, Hamas e Palestina. Cosa sta succedendo?

Aya Omar, esperto di intelligenza artificiale, ha detto al New York Times di non riuscire a vedere gli account dei media palestinesi che segue regolarmente. Il motivo? Meta e Instagram hanno bloccando gli account, semplicemente. Per chi segue il conflitto sui social si è notato che da quando è scoppiato + alcuni fotografi di Gaza, (come Wissam Nassar e Motaz Azaiza) hanno subito lo stesso trattamento. Infatti la prima settimana sul nostro feed c’erano decine di post, negli ultimi tre giorni è scomparsa ogni traccia dei reporter. Cosa risponde Meta?

Meta ha dato una risposta molto vaga. Sostiene che a causa di un “bug” alcuni contenuti erano stati temporaneamente sospesi. Andy Stone, portavoce dell’azienda, in un post su X ha aggiunto:

“Questo bug ha interessato gli account in egual misura in tutto il mondo e non aveva nulla a che fare con l’argomento del contenuto: l’abbiamo risolto il più rapidamente possibile.”

In un post sul blog Meta ha poi scritto:

“Vogliamo ribadire che le nostre politiche sono state pensate per dare a tutti voce in capitolo mantenendo le persone al sicuro sulle nostre app. Applichiamo queste politiche indipendentemente da chi pubblica o dalle sue convinzioni personali, e non è mai nostra intenzione sopprimere una particolare comunità o un punto di vista”

Meta non ha escluso problemi:

“Dato il volume elevato di contenuti che ci vengono segnalati, sappiamo che alcuni post e video che in realtà non violano le nostre politiche potrebbero essere rimossi per errore”.

Ma non è molto convincente, soprattutto perchè è già successo.

Non è la prima volta che vediamo questa censura di Instagram sulla Palestina:


In realtà Meta aveva già avuto lo stesso problema a maggio 2021. L’organizzazione Human Rights Watch aveva infatti accusato Instagram di aver rimosso video, immagini e commenti filo-palestinesi. In un rapporto sui diritti umani in collaborazione con la Business for Social Responsibility (BSR) pubblicato nel settembre 2022 spiega:

“Le azioni di Meta sembrano aver avuto un impatto negativo sui diritti umani e sui diritti degli utenti palestinesi, tra questi la libertà di espressione, libertà di riunione, partecipazione politica e non discriminazione, e quindi sulla capacità dei palestinesi di condividere informazioni e approfondimenti sulle loro esperienze così come si sono verificate.”

Quindi non ci sono dubbi: la censura c’è ed è sotto i nostri occhi. Soprattutto: la censura ci disvela lo schieramento di chi la compie. Assistiamo ad una propaganda palese verso Israele che vuole attivamente agire sulla percezione del conflitto che sta dilaniando la Palestina. Come società che vuole volgere verso una sempre più equa forma di libertà secondo i principi democratici, ciò cui stiamo assistendo dovrebbe preoccuparci molto.

Un altro esempio: il Myanmar

Tu sai del genocidio in Myanmar? Scommetto di no. Ma non è una questione di distrazione: probabilmente non hai avuto accesso a queste informazioni. Probabilmente questo accesso ti è stato attivamente negato. Come ha spiegato la wistleblower di Facebook, Fances Haugen, a Fanpage, il problema sembra essere di “traduzione”.

Nei team di redazione c’è tendenzialmente una forte componente anglofona. Tuttavia non c’è quasi mai abbastanza personale in grado di leggere e scrivere per esempio nei dialetti arabi o ebraici, e quindi di moderare i contenuti scritti in queste lingue. Fances Haugen quindi sostiene che:

Si potrebbe comunque pensare che i siti di ogni zona del web sono affiancati a strumenti di traduzione automatica che, seppur magari a volte approssimativa, non ci rende così “isolati” dal mondo. Le notizie potrebbero, anche in modo poco raffinato, essere sempre tradotte? Non ci sono risposte chiare alla questione

Tornando alla questione, quindi, potremmo giungere a una possibile conclusione. Ovvero: forse i social non erano pronti a gestire il materiale arrivato dalla guerra tra Israele e Hamas. Per questo, molto probabilmente, hanno preferito bloccare e oscurare preventivamente i contenuti filo-palestinesi. La censura è sempre legata alle forze politiche di maggiore influenza, non ha niente a che vedere con la giustizia e spesso anche la nega. Israele è molto più potente al livello di proiezione geo-politica rispetto alla Palestina ed ecco che il gioco è fatto.

Sembrerà una banalità ma vorrei chiudere ricordando che la censura sulle piattaforme restituisce una realtà distorta e apre un problema enorme per il diritto all’informazione. Dibattito che dovremmo affrontare e dovremmo farlo subito.

Maria Paola Pizzonia, Autore presso Metropolitan Magazine