La petizione di FGCI Piemonte: “No alle associazioni pro vita nei consultori”. Perché l’aborto non è necessariamente un trauma

Foto dell'autore

Di Redazione Metropolitan

A seguito dell’emanazione delle Linee di indirizzo sull’interruzione farmacologica volontaria di gravidanza, da parte del Ministero della Salute, su iniziativa del consigliere di Fratelli d’Italia, Maurizio Marrone, e con il sostegno del presidente Alberto Cirio, la Regione Piemonte aveva avviato una verifica di carattere giuridico sulla compatibilità di tali Linee con la legge 194/78 che disciplina la materia, per poi sottolineare che “tali indirizzi rispondono alla volontà di garantire il pieno rispetto di tutte quelle disposizione della legge 194/1978 poste a garanzia della piena libertà di scelta della donna e del perseguimento di pratiche abortive rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna, della sua dignità e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”. La circolare sostanzialmente vieta la modalità di accesso alla pillola abortiva RU486 nei consultori, e finanzia l’ingresso delle associazioni antiabortistiche negli ospedali pubblici. In particolare, prevede l’attivazione “di sportelli informativi all’interno degli ospedali piemontesi, consentita ad idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontaria che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”, esemplificando con iniziative riconducibili al Movimento per la vita. Di conseguenza, l’ingresso delle associazioni pro vita nei consultori viene inserito al momenti dei colloqui per l’IGV, tentando di dissuadere le donne in procinto di abortire.

“Our Bodies, Ourselves”

Peccato che proprio una scelta così dovrebbe invece essere affiancata da un supporto imparziale, senza alcun tipo di pressioni esterne che possano ulteriormente compromettere la libertà di autodeterminazione della donna. Perché sfruttare l’esperienza che rinsavisce sensi di colpa e sofferenza, dettata da quell’ormai sfiancante narrazione per cui “l’aborto è un omicidio”, è la vittoria della retorica del dolore. Una donna dovrebbe avere il pieno potere di scegliere come vivere l’esperienza IVG: positiva o dolorosa che sia, non sta a nessuno stabilirlo. Per questo motivo, FGCI Piemonte – Federazione Giovanile Comunista Italiana – ha lanciato una petizione, diretta ad Alberto Cirio (il Presidente della Regione Piemonte), in cui richiede “il divieto di accesso ai consultori nei confronti di associazioni di qualsiasi genere, che potrebbero interferire con le scelte personali, violando di fatto la legge 194 sull’IGV, in modo tale da fornire un supporto e una tutela del tutto imparziale durante il percorso di IVG; la rimozione del divieto di aborto farmacologico all’interno dei consultori, in totale disaccordo con le linee guida emanate dal Ministero della Salute, su indicazione del Consiglio Superiore di Sanità e dell’AIFA”, perché “è inaccettabile che l’amministrazione regionale utilizzi una circolare per cercare pubblicamente il rimprovero della donna che abortisce, richiamando implicitamente concetti paternalistici, quali la figura della ‘donna-madre’ e l’impossibilità di quest’ultima di avere pieno potere decisionale del proprio corpo”. Il problema infatti è questo: la visione a senso unico per la quale abortire è sempre un trauma, un errore, un pentimento. Una scelta sbagliata. Quasi mai si parla del senso di liberazione che – seppur incompreso per molti – può provare una donna, sollevata dal ritrovare la piena autonomia. Perché ci hanno insegnato che sarebbe meschino anche solo pensarlo, mentre intanto molte donne che scelgono di abortire soffrono più per i giudizi che gli cadono addosso, che per l’atto in sé, legalizzato – tra l’altro – da una legge che sinteticamente dice “l’utero è mio e lo gestisco io”. E accanto alla quale si è creata un’ondata di moralismi che oggi è diventata egemonia. Forse dovremmo iniziare a parlarne in senso più realistico dell’aborto, rendendo protagoniste tutte le donne, dando voce a tutte le loro storie, sia belle che sofferenti, sia di liberazione che di senso di colpa. Tutte ugualmente importanti.

C’è un libro che nel 1970 ha fatto la rivoluzione, opponendosi al mito popolare di genere, che vedeva “le donne come docili e passive” e “gli uomini come attivi e aggressivi” in una relazione sessuale: intitolato Our Bodies, Ourselves, contiene molti aspetti della salute e della sessualità delle donne. Scritto dal Boston Women’s Health Collective – gruppo femminista – ai tempi voleva incoraggiare le donne a celebrare la propria sessualità, includendo capitoli sui diritti riproduttivi, la sessualità lesbica e l’indipendenza sessuale. Gli autori originali del libro hanno indicato quattro ragioni principali per le quali crearlo. In primo luogo, che le esperienze personali aiutano a comprendere il proprio corpo al di là dei semplici fatti che gli esperti possono fornire, creando un’esperienza di apprendimento che dà potere. In secondo luogo, questo tipo di apprendimento rendeva più capaci nel “valutare le istituzioni che dovrebbero soddisfare i nostri bisogni di salute”. In terzo luogo, la storica mancanza di conoscenza di sé sul corpo femminile “aveva avuto una conseguenza importante: la gravidanza” e attraverso una maggiore informazione, le donne avevano più capacità di fare scelte proattive su quando rimanere incinta. Quarto, l’informazione sul proprio corpo è forse il tipo di educazione più essenziale. Era il 1970. Eppure anche nel 2021 farebbe la rivoluzione.

Francesca Perrotta