Le tensioni che si sono verificate in questi giorni, un po’ in tutta Italia – strumentalizzazioni a parte – sono lo specchio di un problema che l’Italia ha da sempre, e riguarda la povertà. La pandemia l’ha solo esasperata, aumentando disoccupazione e disparità di genere, colpendo chi era già escluso o sfruttato, facendo passare in secondo piano le emarginazioni che sono più gravi perché presenti da decenni nel tessuto sociale. La fila lunga mezzo chilometro vista alla vigilia di Pasqua in via Toscana a Milano, davanti una delle sedi della Onlus Pane Quotidiano – associazione laica di volontariato – aveva occupato le prime pagine di tutti i giornali: ma quella non era la prima volta. I volontari raccontano che ogni giorno sono circa 3.500 le persone che ritirano un pasto, mentre il sabato superano le 4.000. “Avere questo risultato mediatico, in questo caso grazie al Corriere, scatena in noi due reazioni opposte – aveva scritto lo scorso 22 marzo Pane Quotidiano in un post su Instagram – da una parte il dispiacere, perché l’indigenza diventa notizia quando il problema si fa pesante, dall’altra l’orgoglio di esserci e dare il nostro contributo”. Ed è così, perché la Onlus milanese si assicura ogni giorno, dal 1989, che chiunque lo necessiti abbia un pasto. E lo fa senza chiedere “chi sei, né perché hai bisogno, né quali sono le tue opinioni”. Quella fila chilometrica è diventata ormai una simbolo, ma anche la concretizzazione del dato sconvolgente comunicato dall’Istat il 4 marzo scorso in cui si attesta che la povertà assoluta, in Italia, torna a crescere toccando il valore più elevato dal 2005: “Le stime preliminari del 2020 indicano valori dell’incidenza di povertà assoluta in crescita sia in termini familiari (da 6,4% del 2019 al 7,7%, +335mila), con oltre 2 milioni di famiglie, sia in termini di individui (dal 7,7% al 9,4%, oltre 1 milione in più) che si attestano a 5,6 milioni”. A un anno dalla pandemia si azzerano i miglioramenti registrati nel 2019, quando il numero si era ridotto in misura significativa, pur rimanendo su valori superiori rispetto a quelli precedenti la crisi avviatasi nel 2008.
La povertà è indirettamente proporzionale al livello di felicità, non solo al reddito
Sul dizionario Treccani, alla parola povertà si legge “genericamente la condizione di chi è povero, di chi cioè scarseggia delle cose necessarie per una normale sussistenza”. La definizione ha dunque una connotazione principalmente materiale, e questo non permette di inquadrare il fenomeno appieno. Perché non è solo questione di “cose”, di beni e servizi: già nel 2004, uno studio dell’Ufficio internazionale del lavoro (ILO) constatava un legame diretto tra la sicurezza economica delle persone e il loro benessere personale, la felicità e tolleranza, nonché i benefici per la crescita e la stabilità sociale. “Il rapporto rileva che la popolazione dei paesi che garantiscono ai propri cittadini un elevato livello di sicurezza economica mostra mediamente un elevatissimo livello di felicità”. Sicurezza economica vuol dire sicurezza del reddito, sia in termini di protezione, che di basso livello di inuguaglianza. E’ questo che elimina la povertà: l’uguaglianza fra gli individui, che corrisponde al diritto alla felicità. Tra l’altro, in Italia la povertà non ha solo il volto dello “straniero”, ma anche del lavoratore impoverito, disoccupato o precario, con cittadinanza italiana. Quello che con la pandemia è stato escluso anche dai bonus simbolici erogati dal governo. Gli “scartati”: quelli rimasti in strada. Da Nord a Sud, la povertà è dilagante. Laico e non, il mondo delle associazioni e del volontariato è protagonista di una “gara” alla solidarietà, perché le richieste d’aiuto ormai non si contano. La pandemia è piombata laddove preesisteva un’ampia fascia di fragilità, quelle famiglie che Il Rapporto Povertà a Roma, ha definito “equilibristi della povertà”. E’ come se l’intero universo della povertà si fosse in qualche modo scomposto: poveri, impoveriti, persone a rischio di impoverimento, “una sorta di continuum temporale nella condizione di povertà”. Si è creata una nuova tipologia di poveri, certamente diversa dal passato, quando la povertà era più cronica, legata a vissuti particolari. Mentre ora i poveri sono intorno a noi, non è più una categoria di persone a sé stante.
La pandemia ha avuto un impatto sul piano strettamente economico, quanto psicologico. Ma anche educativo, a causa proprio della didattica a distanza, una sfida che in Italia non è stata superata. Nel Rapporto 2020 sulla povertà si legge che, durante i mesi di lockdown, “circa 3 milioni di studenti di età compresa tra i 6 e i 17 anni hanno avuto difficoltà a seguire le lezioni soprattutto per carenze o inadeguatezze dei dispositivi informatici in famiglia”. Un fenomeno particolarmente grave se si considera che tutto questo nella maggior parte dei casi produce un abbandono scolastico e di conseguenza un presumibile calo dei lavoratori impegnati in attività di istruzione/formazione. Save the Children ha dichiarato, inoltre, che 1 famiglia su 5 desiderava maggiore comunicazione con gli insegnanti, 4 su 10 ritiene che i propri figli non siano riusciti a seguire il ritmo delle lezioni dall’inizio del lockdown. Oltre il 70% delle famiglie necessitava di un accesso più semplice alla didattica a distanza e un aiuto più consistente da parte degli insegnanti nello studio. Numerose famiglie hanno avuto a disposizione solo uno smartphone come dispositivo per la didattica a distanza. Mentre nelle scuole primarie, quasi 1 bambino su 10, tra gli 8 e gli 11 anni, non ha mai sperimentato le lezioni online o lo ha fatto meno di una volta a settimana; la percentuale scende drasticamente per le scuole secondarie di primo e secondo grado. E non solo: perché la didattica a distanza ha determinato povertà vera e propria tra i bambini: Save The Children nei giorni scorsi ha reso noto che sono 160mila quelli che non hanno accesso ad un pasto gratuito delle mense scolastiche, considerate, per tante famiglie, un modo per assicurare un pasto quotidiano ai figli. Anche se l’uguaglianza non esiste neanche da questo punto di vista perché a Nord sono molte di più le scuole che predispongono la mensa rispetto al Sud.
Il volto autentico della povertà fotografato da Beatrice Seghi
Il punto è che economia e salute camminano di pari passo. Ma sia un fronte che l’altro non lasciano intravedere molta luce al fondo di questo interminabile tunnel, perché nel frattempo si contano ancora i decessi, la campagna vaccinale, già abbastanza lenta, ignora i principali destinatari, quelli più fragili, e subisce ulteriori limitazioni a causa di chi negli effetti collaterali dei vaccini ci vede “anomalie” tali da diffondere solo panico mediatico. Tutti tasselli di un unico puzzle che oggi rappresentano un’Italia fondamentalmente povera: come quella impressa nell’obiettivo della fotografa italiana Beatrice Seghi che ha deciso di ritrarre, per un progetto universitario, gli ospiti, i volontari, tutte le persone che hanno accesso agli spazi della Onlus milanese per mostrare “quanto Pane quotidiano non sia un luogo di passaggio, ma di ritrovo, di riferimento e di scambio, non solo di cibo, ma anche e soprattutto di esperienze umane. Dove si trovano infiniti spaccati della società, un misto eterogeneo e complesso di persone”, ha detto in un’intervista a I-D. Gli stessi spaccati sociali che si tende spesso ad ignorare, nonostante vivano in mezzo a noi, e che uno scatto è riuscito invece a restituirgli un volto, una storia. Quell’autenticità che Beatrice percepisce nella fotografia stessa, in quanto veicolo privilegiato attraverso cui mostrare il mondo e le persone che lo popolano. “Il progetto vuole fare questo: normalizzare il fatto che c’è gente che ha bisogno e che non ha paura di mostrare la propria vulnerabilità, a discapito delle apparenze, senza distinzioni estetiche o umane – ha detto – Voglio rivelare questa situazione, raccontare la realtà che circonda Pane Quotidiano, così che più persone possano conoscerla, non solo per parlarne e contribuire attivamente, ma anche e soprattutto perché chi ne ha effettivamente bisogno sappia che c’è un posto dove trovare aiuto sempre, senza fare domande”. Quando le chiedono che cosa le sia rimasto del progetto, risponde “le interazioni”, quelle che ha cercato sin dal principio perché “volevo essere presente nella fotografia e documentare i volti, gli sguardi. Questa serie vuole raccontare le persone, non le azioni a cui ci si aspetta che vengano associate”. Lungo la fila quelli che si coprono il volto sono tanti, per la paura di essere riconosciuti, per il senso di vergogna. Per non essere semplicemente compatiti in base a quel mantra che nella povertà ci vede solo disagio: “Far vedere agli altri che chiedi aiuto è difficile, si tende sempre a farlo di nascosto – ha aggiunto Beatrice – Con questi scatti vorrei invece normalizzare l’atto di chiedere aiuto, l’umiltà e la vulnerabilità che questo rappresenta”. E che suona un po’ come una rivoluzione perché, come scrive lei stessa in un post sulla sua pagina Instagram: “Chiedere aiuto è un atto di forza e umiltà”. Le associazioni come la Onlus Pane Quotidiano ci ricordano che la povertà non ha interruttori, non si accende e spegne in base alle circostanze, perché esiste da sempre. E loro da sempre la accolgono.
Francesca Perrotta