
In questi giorni stiamo tutti – per lo meno nella mia bolla- vedendo la serie Netflix “ La regina degli scacchi”.
Di cosa parla la serie “La regina degli scacchi”
Tratta dal libro di Walter Tevis e riscritta per la tv da Scott Frank, “La regina degli scacchi” racconta la storia di una bambina prodigio e ne segue le vicende dagli otto ai ventidue anni. La protagonista è l’orfana Beth Harmon che lotta con la dipendenza da alcool e psicofarmaci nel tentativo di diventare un grande maestro di scacchi.
Beth da grande, ha il viso spendido di Anya Taylor-Joy, astro nascente dello star system che vederemo nell’ultima trasposizione del romanzo di Jane Austen: Emma. Un incrocio tra Emma Stone e Amélie Poulain, ma ancora più bella. Se è possibile.
La serie vanta anche un production designer stellare come Uli Hanish, il mago di “Babylon Berlin” . I meravigliosi costumi di Gabriele Binder, sottolineano il cambiamento della protagonista in un susseguirsi di outfit anni cinquanta da urlo. Per non parlare di trucco e capelli…
La regina degli scacchi è una serie femminista?
“La regina degli scacchi “ è forse una delle serie più belle dell’anno, ma non è una serie femminista come è stata lanciata.
E’ una serie sulla lotta alla dipendenza, sui fantasmi e sulla solitudine. Una serie che ha una protagonista donna in un mondo maschile ma che non parla di rivincita femminile intesa come lotta di genere.
Nessuno dei rivali scacchisti di Elizabeth si rifiuta di giocare con lei o la discrimina in quanto donna. Sono forse un pò arroganti, ma chi non lo sarebbe davanti a una giocatrice del genere? Sono anche molto incuriositi da quell’essere sublime che rovescia il loro re ( e il loro ego) in un modo così sfacciato.
La lotta di Beth è con se stessa e la sua autodistruttività, non contro il genere maschile.

Gli uomini a lei vicino, la aiutano e la salvano da situazioni pericolose. La spronano non in quanto donna da difendere, ma in quanto genio, prodigio e di conseguenza sregolatezza allo stato puro.
Il femminismo non c’entra nulla. Il personaggio di Beth non cerca l’empatia delle donne per emaciparsi. Non c’è sorellanza o denuncia.
Femminismo o marketing?
Finchè ogni volta che in una storia la protagonista è una donna indipendente e per puro marketing si sentirà l’esigenza di porre un’etichetta ideologica, si sminuirà il senso stesso della questione di genere.
Questo non vuol dire che una serie che esalta la ricerca del proprio talento non possa avere un significato positivo su chi la vede e che non possa spingere le ragazze a coltivare il loro talento spingendosi anche in territori dominati dal sesso maschile. O che non mostri, attraverso il personaggio della mamma adottiva di Beth, la condizione di inferiorità in cui le casalinghe degli anni cinquanta della middle class americana erano relegate. Tutto questo però è pura cornice di un racconto.
L’intrattenimento è giusto che parli anche di questo, che ci faccia vedere delle cose estremamente curate e divinamente scritte che accendano la nostra passione, che abbiano un contenuto, ma che non per forza debbano avere un valore ideologico perché è proprio in questa waldisneyzzazione della tematica di genere che si annida il nuovo sessismo.
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