“La sentenza nel caso K.”, una tortura nel silenzio della colpa

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Di Redazione Metropolitan

La sentenza nel caso K. (Das Urteil Im Fall K.), presentato alla 32esima edizione del Trieste Film Festival, è un corto austriaco diretto e sceneggiato dal giovane regista Ozgur Anil. Girato da una troupe cinematografica di studenti della Filmakedemia Wien, il corto ha come protagonista una famiglia di origine turca che tenta di tornare alla normalità in seguito alla sentenza del caso di violenza sessuale di cui la giovane Emine è stata vittima.

Un padre rimasto solo a prendersi cura dei suoi due figli, un fratello che vuole vendicare l’onore della sorella, una ragazza che cerca di non farsi fermare da quanto successo. E la comunità che forma un contorno incessantemente presente con sguardo da giudice. C’è chi tenta di aiutare con i mezzi che ha, chi invece colpevolizza silenziosamente la persona sbagliata. La sentenza del processo tocca tanto i carnefici quanto, di più, la vittima, il cui viso viene proposto nella prima pagina di un giornale all’ingresso della metropolitana. Quasi a voler violentare ancora una volta l’identità e la privacy di una ragazza minorenne, oscurata da pochi pixel che fanno comunque intendere benissimo il viso nella foto.

Un potente j’accuse alla società

C’è il carcere per colui che ha compiuto l’atto, sei anni che non sembrano abbastanza a risarcire una vita segnata per sempre. Tre anni di libertà vigilata per colui che per divertimento ha filmato con il proprio cellulare, e successivamente caricato online, quella tortura. Perché di tortura si parla. Una sofferenza che va al di là di quella fisica del momento in cui si consuma la violenza, un tormento che continua psicologicamente per settimane, mesi, che affossa una famiglia intera. Un supplizio al quale anche la comunità condanna la ragazza, che nonostante gli sforzi si vede scivolare dal proprio corpo la proprietà della propria immagine e della propria vita.

Improvvisamente Emine non è più una persona. È un nome vuoto, un volto in copertina, un corpo in un video, la protagonista di sentenze di estranei, vittima e colpevole allo stesso tempo. Aiutato dai silenzi, dagli sguardi carichi di dolore e rabbia del padre e del fratello e dai sorrisi forzati della giovane protagonista, il regista riesce nel suo intento. Fa riflettere su quanto una sentenza non sancisca il termine di una violenza sessuale, su quanto non esista punizione adeguata a risanare quella ferita. Evidenzia la tendenza della società a colpevolizzare chi dovrebbe essere protetto e a minimizzare il peso della colpa del responsabile. Un potente j’accuse alla società che arriva allo stomaco.

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Articolo a cura di Eleonora Chionni