La responsabilità di un’informazione pulita è un dovere deontologico a cui ogni giornalista dovrebbe sottostare. Purtroppo però, quell’etica indispensabile sta sempre più cedendo il passo al sensazionalismo scandalistico di qual si voglia natura, sia che a subirne i danni siano imputati realmente colpevoli, sia che di altri si voglia disegnarne solo i mostri.
È quest’ultimo il caso – bisogna dirlo – di quello che è recentemente successo alla famiglia Benetton, da sempre al centro dell’attenzione mediatica grazie alle sue fortune e abilità imprenditoriali, ma ultimamente protagonista di questa stampa dello scandalo che non perdona i peccati e invidia i meriti.
Ma partiamo dal principio. Chi rivolge un’accusa contro la potente famiglia italiana è nientepopò di meno che un’intera popolazione indigena sudamericana, e nello specifico i Mapuche, nativi della patagonia, e vissuti da sempre su quella punta di terra d’America tanto aspra e inospitale quanto meravigliosamente unica per le sue caratteristiche naturali e paesaggistiche.
La storia di questo pezzo di mondo è stata segnata, dopo la scoperta di Magellano, negli ultimi 500 anni, da svariati tentativi di colonizzazione da parte di inglesi e spagnoli e si è conclusa con la spartizione del territorio tra Cile e Argentina.
Questi due paesi si ritrovarono tra le mani un territorio vasto ma non fruttuoso dal punto di vista economico, essendo molto brullo, stepposo e poco fertile, almeno finchè capirono che l’unica fonte di guadagno possibile poteva essere solo il turismo.
Ed ecco allora che a partire dagli anni ’80, grazie all’enorme popolarità che la Patagonia acquisì grazie all’interesse che suscitava da parte di ricchi turisti avventurieri, imprenditori e perfino stelle di Hollywood, essa diventò di colpo appetibile a scopi industriali e commerciali, spingendo imprenditori come i Benetton ad acquistare pezzi di territorio da destinare ai loro obiettivi imprenditoriali.
Proprio i Benetton, nel 1991 sotto il governo Menem, ne acquistarono la parte più vasta da privati locali, ben l’1% del territorio che venne regolarmente e legalmente venduto alla famiglia italiana.
Adesso pare che il popolo nativo di quei territori ne rivendichi il cosiddetto “diritto ancestrale”, ovvero quel tacito diritto – non riconosciuto dalla legge – di poter disporre totalmente di un luogo per il semplice fatto di esserci vissuti da sempre.
Ed ecco che entra in gioco quell’informazione subdola di cui ho parlato all’inizio, quella che vuole lo scontro a tutti i costi, la gogna mediatica, lo scandalo internazionale: i Benetton sono tutto d’un tratto diventati gli oppressori stranieri, gli usurpatori capitalisti, i despoti giunti a soggiogare i deboli. Peccato che la realtà non sia esattamente quella appena proposta, ma fondi invece le sue radici nella totale integrazione del popolo dei Mapuche con le attività produttive dell’azienda italiana.
Non solo, durante questi ultimi 4 decenni, i Mapuche hanno potuto godere anche dei benefici che questo avvento offrì loro, dalle opere di urbanizzazione ai servizi degni di una civiltà moderna, quali scolarizzazione e servizi alla salute per la popolazione, per non parlare delle infrastrutture e dell’inclusione nel tessuto lavorativo ed economico del territorio.
Il morale della favola è che la speculazione di informazione riguardo temi così importanti come la protezione delle minoranze non può oscurare la verità dei fatti per meri scopi scandalistici e il sensazionalismo dovrebbe sempre poter lasciare il posto all’etica dell’informazione.