Shiva ha 32 anni, Sheida ne ha 29. Sono sorelle e vengono dall’Iran. Quell’Iran che la sera, a tavola, mentre inforchiamo la cena, ci mostrano in protesta per qualche secondo a metà notiziario. Alziamo gli occhi e senza posare la forchetta pensiamo: “che mondo”. E poi ricominciamo.
Ecco forse, sebbene i 4 mila km che separano Roma da Teheran ci sembrino infiniti, dovremmo soffermarci un attimo a capire perché ci sono un paese e un popolo in fiamme non troppo lontano dalle nostre coste orientali. Forse, per capirlo, non basta soffermarci rapidi e passivi su immagini del telegiornale mentre la nostra mente è presa da tutt’altro. Quindi ho chiesto a Shiva e Sheida, piene di coraggio, di raccontarmi cosa sta succedendo davvero in Iran. E ora, carica di ammirazione e paura, vi riporto qui le loro parole.
Vi va di raccontarmi cosa sta succedendo davvero in Iran in questo momento?
Sai dai noi in Iran esiste un proverbio che parla di fuoco sotto la cenere. Voi, in Italia, in Europa, conoscete le proteste che stanno avvenendo ora nel nostro paese come la conseguenza della morte di Mahsa Amini. La morte di Mahsa ha segnato, si, qualcosa nella popolazione. Lei indossava male il velo, la polizia morale per questo l’ha arrestata e dopo tre giorni di coma è morta a causa di gravissime violenze subite da parte della polizia. Detto così, e per le immagini che vengono mostrate, potrebbe sembrare che quelle che ci sono ora in Iran siano proteste contro la religione o contro il velo. Non è così e la fonte primaria della protesta non è la morte di Mahsa. La protesta è proprio quel fuoco sotto la cenere, che con l’assassinio di Mahsa è uscito fuori e ha iniziato a divampare. Sono decenni che vivere in Iran è come vivere in una gigantesca prigione. Una gigantesca prigione in cui siamo schiacciati da problemi economici, sociali, culturali. In Iran c’è una sorta di divieto di parola: se ti pronunci contro il sistema, se lotti per i tuoi diritti, per i diritti dei più deboli, dei bambini, degli animali, o di chiunque altro, finirai in carcere. Centinaia di attivisti sono in carcere da tantissimi anni. Avvocati, perfino.
Ma perché solo ora allora? Perché la popolazione non si è ribellata prima della morte di Mahsa?
L’abbiamo fatto. Varie volte. Nel 1999 per esempio c’è stata una grande protesta per la libertà di espressione all’università di Tehran. Sono stati uccisi tantissimi ragazzi, tantissime persone. Siamo stati costretti al silenzio perché ci ammazzavano. Quindi tutto è tornato come prima. Nel 2009 di nuovo è successo qualcosa, è esploso qualcosa. C’è stata un’altra protesta perché noi abbiamo formalmente diritto di voto ma è praticamente una finzione. Al potere è salito chi nessuno di noi ha votato. La protesta è stata enorme ma, anche qui, ci hanno uccisi e siamo stati costretti a tacere. Non avevamo alternativa. Le cose sono peggiorate e quindi ci abbiamo riprovato, di nuovo. Era il 2020. È stato così tragico che quel mese è conosciuto come Bloody December, è stato letteralmente un dicembre di sangue. La pressione economica non ci permetteva praticamente di mangiare e il prezzo della benzina era aumentato in modo insostenibile. Io mi ricordo che quei giorni ero in vacanza, ero in macchina con un mio amico, era mezzanotte e abbiamo deciso di fermarci per riposare un’oretta prima di riprendere il viaggio. Quando abbiamo ripreso il viaggio e ci siamo fermati per fare benzina alla macchina pensavamo che la pompa di benzina fosse rotta. Il prezzo era tre volte superiore ad un’ora prima. Quando siamo rientrati in mattinata abbiamo trovato le strade piene di persone in protesta. Io all’epoca ero fidanzata con un ragazzo italiano (che adesso è mio marito) e per due settimane non abbiamo potuto sentirci, non ho potuto aggiornarlo se fossi viva o morta perché il governo, appena iniziate le proteste, ci ha tolto internet. Ci ha tolto internet ed ha iniziato a massacrare così, senza che nessuno potesse venire a saperlo, la popolazione in protesta. Hanno ucciso più di 1500 persone. Più di 1000 sono scomparse. E questi sono solo i numeri dichiarati, perché le famiglie hanno perfino paura di affermare l’omicidio di un familiare. È stato atroce, le comunicazioni erano così complesse che perfino noi in Iran non sapevamo cosa stesse succedendo, non potevamo chiamarci, non potevamo mandare messaggi. Non sapevamo se le persone erano vive o morte. Ma anche questa protesta non è servita. Le cose hanno continuato ad andare così, sempre male, sempre peggio.
Mi sembra che le proteste in Iran siano cicliche, come delle bombe che esplodono senza però mai riuscire a fare danni al regime. Non avete paura di rischiare la vita inutilmente anche stavolta?
Questa volta è diverso. È veramente diverso. Questa volta è tutto il popolo unito. Non è una protesta degli studenti, non è una protesta dei lavoratori. Non è una protesta degli ingegneri o degli avvocati. È una protesta dell’Iran. Tutto. Questa protesta, oggi, è un pezzo di storia fondamentale. Noi urliamo nelle piazze, nelle strade, senza fermarci questo slogan, che forse avrai sentito: “Donna, Vita, Libertà”. Questo vuol dire tutto. Vogliamo tutto, adesso. Vogliamo i diritti per noi donne. Non ne abbiamo nessuno ora. Non possiamo essere cantanti, non possiamo andare allo stadio a guardare una partita, non possiamo sposarci senza il permesso di nostro padre, non possiamo uscire dal paese senza il permesso di nostro marito, non possiamo andare nemmeno in bicicletta. Abbiamo una legge che sancisce che anche se abbiamo 13 anni, possiamo sposarci. Se violiamo queste leggi, rischiamo di finire in carcere per tantissimi anni. Vogliamo la vita. Una vita economica, sociale, culturale. Vogliamo la possibilità di vivere. Vivere liberamente. Vivere senza rischiare di finire in prigione o di morire, se esprimiamo la nostra opinione. Vogliamo poter essere liberi di scegliere anche la nostra religione. Vogliamo essere libere di indossare il velo se lo vogliamo o di non indossarlo se non lo vogliamo. È la possibilità di scelta, quella che ci manca. Ecco, si tratta di tutto questo. Ecco perché quella di oggi non è solamente una protesta per le strade. È diventata una protesta internazionale perché finalmente, dopo 44 anni, siamo arrivati ad un punto in cui finalmente mentre noi ci ribelliamo, il mondo, dall’altro lato, sta ascoltando la nostra storia direttamente dalle nostre bocche. Il mondo finalmente sembra disposto ad ascoltare me, Sheida, mia sorella, e tantissime altre donne e uomini che da decenni stanno urlando senza essere mai stati ascoltati. Sono veramente felice, dopo 44 anni, che esista una possibilità di denunciare tutto quello che da anni stiamo subendo nel silenzio collettivo. Il mondo avrebbe potuto saperlo prima ma lo sappiamo come funziona la politica.
Credete che ci sia una responsabilità internazionale? Credete che ci sia un ruolo che abbiamo ricoperto in tutto ciò, oppure che avremmo potuto ricoprire, e non l’abbiamo fatto?
La settimana scorsa Ebrahim Raisi, il Presidente dell’Iran, era a New York mentre noi eravamo in protesta a morire per le strade. Ottenere un visto per l’America è praticamente impossibile per qualsiasi iraniano. È sempre stato così. Con Trump per noi la situazione era tragica, con Biden, adesso, è leggermente migliorata ma ancora oggi prendere il visto resta difficilissimo. Allora se il regime oscura le proteste, ci impedisce di comunicare togliendoci internet e la linea, ci impedisce di uscire fuori dal nostro paese per raccontare la verità, come facciamo a far sapere al mondo quello che sta succedendo?
Dall’altro lato è chiaro che i leader politici internazionali sono a conoscenza di quello che succede in Iran, eppure non dicono nulla. Non denunciano, non aiutano, non informano nemmeno. Questa nella nostra storia è la prima volta che la nostra voce di popolo ha credibilità. E abbiamo dovuto aspettare 44 anni. Prima della dittatura era diverso, c’era il Re. Con la monarchia c’era più libertà, c’era possibilità di scelta. Si poteva decidere se indossare o meno il velo, per esempio. Adesso se esci di casa senza velo vai in carcere anche per 30 anni. Prima non rischiavi la vita se bevevi un bicchiere di vino. Adesso l’alcool, ad esempio, è completamente vietato a chiunque. Chiariamoci, non abbiamo la minima intenzione di tornare alla monarchia, ma in questo passaggio che è avvenuto c’è una responsabilità internazionale a cui non posso non pensare. Nella transizione dalla monarchia alla dittatura, l’occidente dal mio punto di vista ha avuto un ruolo. Un ruolo importante. All’America non piaceva il sistema monarchico dell’Iran, in particolare gli americani non erano in buoni rapporti con il Re, che da noi aveva pieni poteri e non si alienava affatto alle richieste americane, soprattutto per quanto riguarda il petrolio e il suo prezzo. Quando in Iran c’era un clima di colpo di Stato, un colpo di stato che per la popolazione avrebbe dovuto trasformarsi in una democrazia e non in una dittatura, l’America credo abbia avuto un importante ruolo di supporto nella sovversione del sistema. Per sbarazzarsi del Re, sostanzialmente. Negli anni, d’altronde, anche Francia e Inghilterra hanno supportato l’ascesa di questo tipo di figure che sono poi per noi dittatoriali. I Mullā, si chiamano. Sono come dei capi religiosi che decidono tutto. Per come la vedo io, finché avremo il petrolio non avremo pace. Però vorremmo almeno un po’ di libertà. Oggi i leader politici lo sanno cosa succede in Iran, l’hanno sempre saputo, e non hanno fatto nulla. Forse anche perché le popolazioni non sapevano cosa succede da noi, e quindi non c’era vergogna nel continuare ad imporre dittature.
E adesso, con queste proteste, che cosa volete ottenere? Perché le cose dovrebbero cambiare se i leader politici continuano ad imporre dittature di anno in anno?
Io non mi sono mai esposta nelle proteste come sto facendo ora, come sto facendo oggi. Oggi voglio farlo con tutta me stessa perché adesso l’obiettivo non è cambiare leader. Cambiare leader non significa nulla, il successivo potrebbe essere peggio del precedete. Questa volta l’obiettivo è cambiare tutto. Cambiare proprio il sistema. Vogliamo un voto autentico, un referendum, l’allontanamento dalla dittatura religiosa che governa anche la politica. Vogliamo scegliere chi avere a capo. Penso a tutti quegli attivisti e attiviste che sono in carcere da anni perché si sono battuti per i diritti del nostro paese. Perché vogliono costruire un paese migliore. Penso a Nasrin Sotoudeh, un’avvocata che ha passato la sua vita in carcere perché ha difeso strenuamente i diritti umani. Sono queste le voci che vogliamo a guidarci e rappresentarci.
Io vi ascolto e continuo a chiedermi: non avete paura?
Si abbiamo paura. La popolazione ha paura. Ma è più stanca che spaventata. La gente ha fame e vuole essere libera. Il regime sta cercando ancora di zittirci: arrestandoci, picchiandoci, uccidendoci. Addirittura vengono prese le persone in mezzo alla strada così, senza motivo, anche se non sono in protesta. È la strategia del terrore, in qualche modo. La paura c’è. Ma i giovani, soprattutto, adesso sanno cosa c’è fuori, come funziona il mondo e sono stanchi. Sai qual è la grande differenza? Che adesso abbiamo uno strumento che prima non avevamo: la possibilità di far sentire la nostra voce anche fuori dai confini iraniani. La possibilità di far sapere al mondo cosa succede davvero in Iran. E vogliamo usarla questa possibilità. Vogliamo essere ascoltati, creduti, e vogliamo che le persone raccontino cosa ci succede da anni nel silenzio del nostro Governo e di tutti gli altri. Il Regime continua a tagliarci le comunicazioni, internet e ogni possibilità di diffusione, ma qualcosa fuori sta arrivando. Il mondo sa cosa sta succedendo. Abbiamo bisogno che si sappia sempre di più, che se ne parli sempre di più, perché solo così le cose potranno cambiare. Solo così il Regime sarà messo alle strette e magari noi, finalmente, potremo avere un po’ di libertà.
Flavia Carlini