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Ottobre 22, 2024, martedì

La Virginia è il primo stato del Sud degli USA ad abolire la pena di morte: perché ci sono ancora stati che la adottano?

Storicamente caratterizzato dal numero più alto di esecuzioni capitali – secondo solo al Texas – la Virginia è il primo stato del Sud America ad abolire la pena di morte. Così ha voluto il governatore Democratico Raplph Northam, da sempre abolizionista, dopo il via libera del Parlamento Statale. “Firmare questa legge è la cosa più giusta da fare – ha detto – non c’è posto per la pena di morte nel nostro Stato, nel sud e nel paese”, archiviando definitivamente la ‘camera della morte’ nel penitenziario di Greensville, dove nel 2000 venne giustiziato anche Derek Rocco Barnabei, il cittadino statunitense di origini italiane, condannato a morte per omicidio: un caso che suscitò polemiche tali da mobilitare anche il Parlamento europeo e Papa Giovanni Paolo II, a causa della sua dubbia colpevolezza, per la quale si chiedeva che gli fosse risparmiata la vita.

Gli Stati Uniti rappresentano da sempre il Paese in cui proliferano “macellai” con quel senso di giustizia all’americana per cui la libera ricerca della felicità è direttamente collegata al diritto dello Stato di infliggere la morte. Secondo il Death Penality Information Center, sono 25 gli Stati USA che prevedono la pena capitale, mentre 22 no. Un numero che si dimezza solo di 1, se escludiamo, d’ora in poi, la Virginia. Il Texas, in particolare, è lo Stato con il record di esecuzioni, per i suoi 569 giustiziati, differenziandosi dagli altri per l’ampio ventaglio di reati punibili con essa: il traffico di droga, ad esempio. Il metodo più diffuso, in seguito all’abolizione della sedia elettrica e dell’impiccagione, è l’iniezione letale, ma in alcuni Stati (come lo Utah) il condannato può scegliere anche la fucilazione. Il Dristrict of Columbia, con la capitale Washington, ha abolito la pena di morte nel 1981. Mentre alcuni Stati, come California, Oregon e Pennsylvania, hanno imposto delle moratorie, un metodo che va a sospendere l’applicazione della pena di morte, pur mantenendola nei propri istituti giuridici. Sono diversi, infatti, i paesi che non la applicano da almeno 10 anni, contro chi invece la contempla a tutti gli effetti, ignorando quella risoluzione dell’Onu che il 18 dicembre del 2007 approvò la Moratoria universale della pena di morte. Un traguardo raggiunto anche grazie all’iniziativa dell’Italia che, nel ’94, durante il governo Berlusconi, svolse un’intensa azione in quest’ottica. Nel documento viene specificato che la pena di morte viola il diritto alla vita riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, configurandosi come omicidio premeditato dello Stato, e dunque inaccettabile e crudele, senza alcun valore deterrente nei confronti del crimine, “mentre rende ogni errore giudiziario fatalmente irreversibile”.

Abolire la pena di more: vittoria, ma non troppo

Barack Obama è stato il presidente degli Stati Uniti, dall’era di Truman in poi, con il più alto numero di commutazioni della pena. Una clemenza svanita con l’arrivo di Trump che, di tutta risposta, ha ripristinato le esecuzioni capitali anche nelle prigioni federali, dopo più di 16 anni. Andando a ritroso, la sanzione era esistente già nelle più antiche civiltà preistoriche, in cui i capi tribù decidevano di infliggerla per reati di lieve entità. Nelle civiltà americane precolombiane, in particolare, il sistema giuridico era semplice: non esistendo le carceri, per un furto si diventava schiavi, e per un omicidio si moriva. “La pena di morte della Virginia ha profonde radici nella schiavitù, nei linciaggi e nelle leggi di segregazione Jim Crow“, ha infatti dichiarato Roberto Dunham, direttore esecutivo dell’organizzazione Death Penalty Information Center. La maggior parte dei condannati a morte sono afroamericani e, secondo l’organizzazione, dall’inizio del ventesimo secolo sono stati giustiziati 296 detenuti di colore, rispetto ai 79 bianchi. “Da quando la nostra colonia è stata fondata – aveva commentato il senatore democratico Scott Surovell, tra i principali sponsor della legge – 1.329 persone sono state giustiziate nel nostro governo. Più di ogni altra entità governativa negli Stati Uniti d’America”. Per questo Dunham ha sottolineato “il valore simbolico di smantellare questo strumento usato storicamente come meccanismo per l’oppressione razziale da una legislatura che si trova nell’ex capitale federata”.

La prima condanna a morte fu eseguita nel 1608. Da quando fu reintrodotta negli Usa, nel 1977, solo in Virginia sono state giustiziate 114 persone. Eppure, nel 1764, ci fu un’opera che più di tutte mise in discussione alcune di quelle certezze radicate nella storia dell’uomo come lo era la pena di morte: fu Dei delitti e delle pene, di Cesare Beccaria, con un capitolo specificatamente dedicato alla condanna capitale che Beccaria criticava ferocemente, affermando: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Parole di ampio significato che non risparmiarono neanche la Chiesa, allora contraria al suicidio ma favorevole alla pena di morte. Un’ipocrisia che si trascina dietro da secoli, e che già Beccaria sottolineò ai tempi. Il fatto che nel 2021 si parli ancora di abolire la pena di morte come di un traguardo è un segnale di arretratezza, più che di vittoria. Specie nel contesto in cui ci troviamo oggi: paralizzato da una pandemia che ha generato vittime di odio, violenza, e discriminazione, più di quanto abbia fatto il virus stesso. Se non è lo Stato in primis ad allontanarsi da determinate ‘pratiche’, diventando esso stesso un assassino, cosa ci si aspetta dai suoi cittadini? “La migliore scuola è l’esempio”, mi dicevano.

Francesca Perrotta

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