Successo confermato al Teatro Porta Portese a Roma per “L’Aria”, lo spettacolo coraggioso e appassionante dedicato a tutte le vittime degli abusi di potere da parte dello stato.
Secondo Dostoevskij “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” e in Italia non siamo messi benissimo. Ne “L’Aria”, lo spettacolo teatrale firmato da Pierfrancesco Nacca e diretto da Giulia Paoletti, si parla proprio di questo. La situazione delle strutture carcerarie italiane è vergognosa e drammatica, il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche rendono la detenzione infernale, mettendo a dura prova il rispetto e la dignità umana che spesso viene calpestata. L’Aria è il pretesto per raccontare la storia di quattro detenuti: Nicola, Mario, Rosario e Carmine, rinchiusi in un istituto di detenzione del nostro paese. Raccontano pezzi della loro vita, quella vera, prima di essere reclusi, fino ad arrivare poi al momento della carcerazione. Cosa si nasconde dietro ai loro reati? Dietro quei volti scavati, dietro il loro taglio di capelli, dietro quelle tute acetate? Forse solo uomini, ed è questo che si vuole raccontare, storie di uomini, storie di abusi, di disagio e di sofferenza.
La messa in scena scorre fluida, le storie di ogni detenuto si alternano e mentre ognuno racconta la propria, gli altri tre, come un coro greco, l’amplificano e la fanno vibrare. Ogni attore porta abilmente qualcosa del suo personaggio sotto i riflettori: i muscoli e le lacrime di Gabriele Sorrentino; la disperazione di Andrea Colangelo; l’umanità di Alessandro Calamunci Manitta e l’istrionismo di Pierfrancesco Nacca. La regia di Giulia Paoletti riesce ad amalgamare bene questi elementi e a dare il giusto risalto al testo di Nacca creando uno spettacolo che merita lunga vita.
Capita anche che in carcere, si entri da vivi e si esca da morti, perché l’assistenza sanitaria è precaria, quasi inesistente, perché vivere dentro è insopportabile e si preferisce il suicidio alle sbarre; perché c’è sempre qualcuno che ha la responsabilità di assistere e difendere i diritti umani, che abusa del proprio potere, con l’uso spropositato della forza, della violenza ingiustificata, delle percosse, delle lesioni. Pochi i casi di cronaca giudiziaria risolti, tanti altri, ancora in cerca dei colpevoli, tra forze dell’ordine, medici e infermieri. Quelle strane morti, improvvise, sospette, quelle foto violacee di volti emaciati, di membra lacerate, gridano ancora giustizia: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli…
“Noi che viviamo in questo carcere, nella cui vita non esistono fatti ma dolore, dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della sofferenza, e il ricordo dei momenti amari. Non abbiamo altro a cui pensare. La sofferenza è il nostro modo d’esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra identità. ” Scriveva Oscar Wilde nel suo De Profundis: il carcere compare diverse volte, in letteratura, al cinema, nell’arte… In “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani vediamo i veri detenuti del carcere di Rebibbia interpretare l’opera di Shakespeare; in “Orange is the new black”, seguitissima serie Netflix, scopriamo il plurisfaccettato universo femminile in un istituto di detenzione americano; “L’Aria” si aggiunge a questa lista facendoci sognare il mare tra quattro mura.