La voce, è più di un suono. E’ la nostra storia.
Quando ci accomodiamo sulle poltrone di un cinema o ci acciambelliamo sul divano di casa, per gustare la visione di un film o serie che sia, molto spesso rimaniamo affascinati dalle gesta di attori, che ci fanno innamorare della storia raccontata. Il mondo del cinema è composto da tanti piccoli e grandi interpreti che con i loro ingranaggi rendono possibile qualsiasi realizzazione, prodotta dal cervello di un regista o soggettista e rendono fluide le parole di una sceneggiatura. Trasformano in reale ciò che non potrebbe esserlo. In una parola, sono autori di pura magia. Così l’ho sempre vista.
E poi c’è quel ruolo che spesso viene osservato dal pubblico e soprattutto dalla critica, solo successivamente, quando si è già deciso se quel film sia meritevole o meno della giusta attenzione. Quel ruolo è il doppiatore. Spiegarlo solo per la complessità tecnica sarebbe superficiale, come altrettanto lo sarebbe soffermandosi soltanto per una innata vocazione sonora del timbro vocale. Il doppiatore ha un onere cinematografico. Esso ha quella sottile incombenza, di mettere il personaggio a proprio agio davanti al pubblico e soprattutto, viceversa. Rende credibile prima di ogni gesto.
Quante volte abbiamo mal digerito un volto sullo schermo, quando questo è accompagnato da una voce non sua.
E quante altre volte abbiamo invece, esaltato un personaggio, solo recependo all’orecchio, la pronuncia che ci aspettavamo. Ci concilia con il personaggio, aiuta lo spettatore nel rendere riconoscibile e familiare il movimento visivo. Il doppiaggio deve raggiungere dove l’immagine non può arrivare e ricoprire i buchi lasciati scoperti dall’interpretazione attoriale.
L’arte del doppiatore: esempi eclatanti
Ultimamente ho beneficiato della voce di Massimo Popolizio, in Il Re Leone, per il doppiaggio di Scar.
Nonostante la già incredibile tridimensionalità del rifacimento Disney, Popolizio esce dallo schermo ed entra senza chiedere permesso, con lo stesso sottile brivido utilizzato per Voldemort. Amplia il personaggio, lo rende affascinante e introspettivo.
Spesso le voci originali delle star di Hollywood sono da cineteca, ma se questo è vero, lo è altrettanto affermare che molti di essi, devono una parte del loro successo, alla loro controfigura vocale, dando a volte, uno spessore altrimenti assente.
Gigi Proietti che grida “Adrianaaa” o Ferruccio Amendola che ci guarda spocchioso chiedendoci “dici a me?ce l’hai con me?”, Luca Ward che scandisce “Mi chiamo Massimo Decimo Meridio”, il grande Tonino Accolla che con la sua risata ha reso Eddie Murphy un’icona, Francesco Pannofino regala a George Clooney aggiunge mistero ad ogni suo personaggio. L’Italia è piena di autentiche star del doppiaggio.
Eppure questa categoria è fuori da qualsiasi Festival del Cinema che si rispetti. Perché?
Bisogna aspettare la manifestazione Voci nell’Ombra o qualche kermesse minore, per rendere omaggio a questa fetta del cinema, che seppur appetitosa come le altre viene sempre lasciata per ultima.
La voce,
ci culla prima della luce quando tutto è buio e nascosto, poi ci educa. Ci sgrida, ci esalta ci fa piangere e ridere, ci avvicina e allontana. Quando poi ci entra dentro inaspettata, è capace di darci quell’emozione che ci fa chiudere gli occhi e rilassare il volto. Ci manca quando non la sentiamo, quasi ce ne scordiamo finché come un boomerang, ritorna dentro la nostra mente, si infila sotto la pelle e chiarisce quel che pensavamo di aver perso.
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