Leonardo Dri e la curiosità di comunicare (intervista)

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Di Redazione Metropolitan

Leonardo Dri si definisce un appassionato, o meglio, un curioso compulsivo. Abbiamo scambiato due chiacchiere con lui a proposito della comunicazione.

“Ti va di prendere un caffè?”; “Ieri sera sono uscito con Elena. E’ andata alla grande!”; “Mi hanno licenziato.” Quante volte abbiamo sentito espressioni di questo tipo, o quante volte abbiamo frainteso ciò che ci è stato detto. I gesti, le espressioni, il linguaggio, i pensieri, sono parte integrante della comunicazione.

Dalla teoria matematica dell’informazione di Claude Shannon all’avvento dei social sono passati all’incirca settant’anni emigrando (ed emigra) per varie discipline, dall’antropologia, alla sociologia, alla psicologia per sostare nelle scienze delle comunicazione.

Abbiamo scambiato due chiacchiere con un esperto di comunicazione, anche se lui si definisce più un appassionato e curioso compulsivo, Leonardo Dri. Sempre in movimento ed in continua formazione ci dà il suo punto di vista su quello che studia, ma soprattutto lo affascina e lo incuriosisce.

MM: Ciao Leonardo Dri, grazie per la tua disponibilità ad aver accettato il nostro invito. Leonardo, sei un esperto di comunicazione. Università, corsi, master, autodidatta, esperienze lavorative, il blog. Sei uno che non si ferma mai, raccontaci chi sei e perché proprio la comunicazione.

LD: Sono un grandissimo studioso e appassionato del mondo della comunicazione. Ma sono anche un marito, un avido lettore, un appassionato di tè e birra, un praticante di arti marziali, oltre che un discreto cuoco (ma non so se il parere di mia moglie valga in questo senso). D’altra parte sono anche un gran pigro e bugiardo, ma prometto di mentire poco in questa intervista! O forse sto mentendo anche ora, chi può dirlo?                                Più che esperto, mi piace definirmi curioso compulsivo! Potrei darti una risposta trita, come “chi non si forma si ferma”, ma la verità è che credo ci siano così tante cose da scoprire nella vita che non posso darmi un momento di tregua. E nella Comunicazione ho trovato il filo rosso che unisce tutto. Watzlawick diceva che “non si può non comunicare”, e il fatto che sia una materia così pervasiva, ma al contempo sottovalutata, non fa che accentuare questa mia passione!

MM: Ti occupi di corsi di formazione, di coaching, sei consulente. Studi la comunicazione come fenomeno di cambiamento, esplorando nuovi campi, da quello strategico a quello innovativo. Se posso chiederti, qual è stata la strategia innovativa più particolare che hai utilizzato? E quale figura, di quelle citate sopra, ritieni sia più soddisfacente ricoprire?

LD: Santajana diceva che “non c’è nulla di nuovo sotto questo cielo, tranne il dimenticato”, e alcune delle cose più innovative che faccio hanno una storia di oltre duemila anni, e sembrano magiche. Magiche, come direbbe Clarke, perché sono “tecnologie” così avanzate da sembrarlo! I miei stratagemmi di intervento preferiti sono quelli paradossali, come la tecnica strategica del “Come Peggiorare”. Invece che chiedermi come avere successo mi domando: “cosa dovrei, volontariamente e deliberatamente fare o non fare, pensare o non pensare, se volessi essere sicuro di peggiorare la situazione?”  Tra i vari cappelli che indosso nel mio lavoro, quello di esploratore è inscindibile dagli altri, e permea tutte le mie attività: anche quando sono con un cliente imparo sempre qualcosa, e questo è sicuramente ciò che amo del mio lavoro. Non lo so, è troppo difficile scegliere. Per motivi diversi sono tutte cose che amo fare!

MM: Hai un blog intitolato “Daiquiriism”. Cosa significa questo termine e cosa vuoi trasmettere con esso?

LD: Il mio Blog più che uno strumento per fare business è un luogo in cui mi racconto, e rifletto, spesso giocando con le parole. Da sempre amo l’attività della scrittura. Per anni ho scritto racconti, in modo molto discontinuo, fino a quando non ho trovato un modo di renderla anche utile, oltre che un piacere. Ma ogni tanto penso che, oltre ai miei soliti articoli seriosi, sporadicamente potrei anche inserire qualche storia breve delle mie! La parola “Daiquiriism” è un nonsense, e proprio per questo l’ho scelta per descrivere il mio lavoro. Mi piace pensare che la Comunicazione sia una tecnologia che aiuta a costruire il senso delle cose, e quale modo migliore per descrivere questo concetto se non attraverso una parola che senso non ne ha?

MM: Un aspetto molto interessante sul tuo blog, e che sta avendo un buon successo è il podcast: “Storie di ordinario insuccesso”. Un’idea, se vogliamo, in controtendenza rispetto alla realtà di oggi, ove il successo e la sua immagine ricopre un ruolo determinante nelle aspirazioni e nella mentalità di oggigiorno. Perché questa scelta e che riscontro sta avendo a livello sociale (se la gente è propensa a raccontarsi e ad ascoltare)? Se posso chiederti, a questo punto, un tuo fallimento da cui sei ripartito.

LD: Mi piace ascoltare i podcast, e mi piace sentire le storie di chi ce l’ha fatta. Ma la verità è che dietro a molti successi ci sono molti più fallimenti. Quando a Edison chiesero delle migliaia di fallimenti nel creare una lampadina funzionante lui, del resto, rispose che non aveva fallito migliaia di volte, ma trovato tutti i modi possibili per non far funzionare la lampadina, che gli erano serviti a trovare l’unico modo giusto. Insomma, è dal fallimento che si impara davvero, e trovo che sia un argomento di cui in Italia si fa ancora troppa fatica a parlare, il mio è solo un piccolo contributo in questa direzione! 

I miei fallimenti sono tantissimi, e li racconto tutti nel mio podcast. Uno di quelli che mi ha segnato maggiormente forse è stato l’aver sbagliato università, perdendo due anni dietro a una facoltà che non sentivo mia. A raccontarla è banale, ma per un ragazzo che ha avuto solo successi accademici è stato un enorme colpo. Mi ha insegnato che anche io potevo sbagliare. E soprattutto che il fallimento era un’occasione che ci dà la vita per cambiare rotta, ripensare alle cose davvero importanti, e imparare qualcosa di nuovo su noi stessi.

MM: Ho l’opportunità di parlare con un esperto e a questo punto ne approfitto! L’importanza di uno strumento tecnologico deriva dal fatto di quali bisogni riesce a soddisfare. In questo caso, mi riferisco ai social. Quali bisogni riescono a soddisfare e com’è cambiata la comunicazione? Che impatto dai a questo nuovo canale di massa?

LD: Questo è un argomento di cui parlo spesso. Uso Internet come primo strumento di comunicazione, quindi sarei ipocrita a dire che non funziona, ma la verità è che non ci permette di costruire delle vere relazioni con le persone. Ci permette di parlare contemporaneamente ad un pubblico virtualmente illimitato, ma al contempo in modo incredibilmente superficiale. Oggi l’uso eccessivo di internet, soprattutto nei giovanissimi, porta ad incapacità patologica nel costruire relazioni, perché ricordiamolo: la comunicazione attraverso Internet è surrogata. Insomma, da una parte accorcia le distanze, dall’altra le allunga. Ed ecco perché una relazione su Internet è buona solo se viene portata ad un livello fisico. Altrimenti resta solo superficiale. Dobbiamo esserne consapevoli, sia nel modo in cui lo usiamo, sia educando le nuove generazioni al suo utilizzo: solo così riusciremmo a coglierne davvero l’immensa potenzialità, senza farci soggiogare da esso.

MM: Oramai si sente parlare con assidua frequenza di neuro-marketing e di come questo ramo scientifico condiziona sempre di più il rapporto produttore-consumatore. Tra esperimenti, ricerche, laboratori quali conseguenze ci sono state dal punto di visto pragmatico per l’azienda; e per il consumatore? 

LD: Lo vivo con un certo scetticismo. Da una parte, le aziende hanno sempre prestato grande attenzione nell’uso della ricerca psicologica per migliorare le proprie performance di vendita, e in questo non c’è nulla di male! Dall’altra, il rischio è quello di focalizzarsi troppo su strumenti che aiutino a chiudere una vendita nell’immediato, ma perdano di efficacia nel medio-lungo periodo. Insomma, chiamami un romantico, ma ho l’impressione che il modo migliore di comunicare per un’azienda resti quello di costruire con i suoi clienti relazioni durature, mentre penso che uno strumento come il neuro-marketing sia solo una scorciatoia che però porta nella direzione sbagliata. Ma forse penso questo solo perché non ho approfondito a sufficienza l’argomento, quindi invito tutti gli esperti del settore a contattarmi via LinkedIn e a convincermi che ho torto!

MM:Rimaniamo in tema neurologico-comunicativo. Bandler e Grinder (psicologo il primo, linguista il secondo) ideano alla fine degli anni settanta la PNL: la programmazione neuro linguistica. Un’idea di connessione fra i processi neurologici, il linguaggio, e gli schemi comportamentali appresi dall’esperienza, affermando che questi schemi possono essere organizzati per raggiungere scopi nella vita. Innanzitutto, ti chiedo cosa ne pensi di questa teoria, ma nello specifico vorrei chiederti di che impatto ha avuto sull’ascoltatore l’espansione massiccia di corsi orientati all’apprendimento della PNL, soprattutto emotivo e di come si possa essere influenzati di programmi di coaching intensivo per trovare senso o pratica alle proprie aspirazioni.

LD: Conosco la PNL da osservatore esterno, nel senso che i modelli comunicativi che studio vengono da altre ricerche (Scuola di Palo Alto, portata in Italia da Giorgio Nardone). E se, da una parte, sono convinto che a un certo punto la studierò, al momento non sono qualificato a giudicarne la bontà. Fare il coach non è cosa da poco. Richiede una preparazione intensiva, e molta esperienza sul campo, non è una cosa che si apprende in un seminario di 4 giornate intensive. Se si è alla ricerca di senso trovo molto più funzionale farsi affiancare per un periodo da un coach esperto, piuttosto che provare a diventarlo!

MM: Con questa domanda voglio essere un po’ polemico, soprattutto perché anche io sono uno studente di comunicazione. Non voglio entrare nel merito della politica italiana, lascio ai miei colleghi di Metropolitan(https://metropolitanmagazine.it) farlo, ma con l’elezione di Roberto Fico (laureato in Scienze della Comunicazione) alla presidenza della Camera, sovviene un minimo di “dignità”, consentimi questo termine, a tutti coloro che cercano di specializzarsi (o già specializzati) in questo settore? Te lo chiedo anche per le numerose polemiche passate riguardo a questo percorso di studi, spesso criticato come inutile o fautore di “fuffologi”.

LD: Ritengo che le capacità comunicative siano drammaticamente carenti nella nostra istruzione, fin dai primi livelli della scuola primaria. Una competenza che sta alla base della vita quotidiana, sia personale che professionale delle persone viene completamente ignorata. Lo studio della comunicazione ha un’enorme dignità. Poi ovvio, come tutte le cose, ciò che fa la differenza è il modo in cui viene sviluppato! Ci sono persone competenti e fuffologi in tutti i settori, dopotutto.

MM: Cosa consiglieresti a chi vorrebbe intraprendere una (possibile) carriera in questo settore?

LD: Di essere davvero curioso e di praticare un’arte marziale. La curiosità è quel bisogno che ti guida in un ambito di ricerca in cui oggi abbiamo solo iniziato a scalfire la superficie. L’arte marziale, invece, ti dà la disciplina di continuare a provarci, anche quando senti che il tuo fisico non può dare di meglio, fino a quando non trovi un modo di farla funzionare, quella cosa, per te. E di fare i conti con il fatto che ci sarà sempre qualcuno più bravo di te, ma tu puoi comunque trovare il tuo modo di essere, e in quello sarai sempre migliore di chiunque altro.

MM: Chiudo l’intervista con una piccola curiosità. Dalla tua esperienza, i comunicatori (quelli che studiano la comunicazione) sono più abili a mentire? 

LD: Ti ringrazio di cuore per questa domanda, a cui sono felicissimo di rispondere! Mi verrebbe da dire, non necessariamente, ma in generale sì. La Comunicazione, per definizione, è una tecnologia, né buona né cattiva. E la menzogna è un piccolo tassello di quella tecnologia. A sua volta non è né buona né cattiva, ciò che fa la differenza è il modo in cui viene usata. E in questo senso mi piace chiudere con le parole di Wittgenstein: “Le Parole sono Pallottole”, aggiungendo un mio pensiero personale.

Tutti noi, in un certo senso, nasciamo portando in mano questa pistola; una pistola che nessuno ci insegna usare, e da cui, in modo quasi accidentale, partono continuamente dei colpi. Nella maggior parte dei casi non colpiscono nulla, sono del tutto innocui. In alcune circostanze colpiscono il nostro bersaglio, ma spesso arrivano a ferire, persino a uccidere, in modo del tutto accidentale. Studiare comunicazione, per me, significa imparare ad usare questa pistola, ed è una responsabilità che noi abbiamo perché a quel punto siamo noi, con il nostro arbitrio, che decidiamo se serve a salvare le persone, o a ferirle. A quel punto diventiamo, appunto, responsabili. E quindi che si usi la comunicazione per mentire o per complimentarsi, per salutare o per ottenere informazioni, ciò che fa davvero la differenza è se noi quella pistola la sappiamo usare, e con che scopo la usiamo. Il mio saluto e appello, quindi è questo: imparate ad usare la vostra pistola. Imparate a gestire le vostre pallottole. Imparate a comunicare.

Grazie a Leonardo Dri!

 

Mattia Gargiulo