Letture coraggiose: “Signorina” e il lessico femminista

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Di Redazione Metropolitan

Questa puntata della rubrica “Letture coraggiose” è dedicata a “Signorina. Memorie di una ragazza sposata” di Chiara Sfregola, edito da Fandango. La scrittrice ha all’attivo due romanzi. Il primo è “Camera Single – La fisioterapia del cuore”, pubblicato da Leggereditore e uscito nel 2016. Il secondo è invece più recente (2020) ed è quello di cui andremo a parlare oggi.

L’importanza di chiamarsi “Signorina”

Spesso e volentieri il lessico di genere è uno dei problemi presi più di mira da chi non lo vuole prendere in considerazione. L’uso dei sostantivi che indicano il mondo lavorativo declinati al femminile spesso provocano un orrore spesso non commisurato alla battaglia che si sta cercando di intraprendere. Sono infatti più le persone che si battono per non proferire “avvocata”, “ministra” o “ingegnera” rispetto alle donne che si auto-definiscono in tale maniera. E la ragione è semplice: si potrebbe dire parafrasando Wittgenstein che “i limiti del linguaggio sono quelli del mondo”. Il nostro modo di esprimerci dunque rivela delle verità su come analizziamo la realtà e sui retaggi culturali da cui siamo ancora condizionati. Questo vale anche per il termine “signorina”.

Il problema etimologico racchiuso al suo interno

Come tutti sapremo, esso indica un individuo di sesso femminile non coniugato. Come nota acutamente Sfregola però, non esiste un corrispettivo al maschile. Questo perché per il sesso “forte” il matrimonio in fin dei conti non è importante. A livello popolare alla figura della zitella, la vecchia indesiderabile e acida spesso contorniata di gatti, si scontra fatalmente con quella del cosiddetto “scapolo d’oro”. Ovvero l’uomo ancora piacente, forse addirittura troppo in gamba con le donne e spesso anche danaroso: la rappresentazione di un “buon partito” invecchiato come un buon vino d’annata. Alle prime è attribuita un’aura di sciatta insoddisfazione e tristezza, il secondo invece è ancora raggiante e in grado di mordere la vita.

Entrambi questi stereotipi sono profondamente radicati nel nostro inconscio e sembrano quasi prendere vita come per magia oltre allo schermo del nostro smartphone. Non esiste un “signorino” che tenga. L’uomo ha sempre autorevolezza, non è mai infantilizzato e non ha bisogno di qualcuno che lo mantenga. Anzi può legittimamente conservare la propria ricchezza.

Inoltre non ha il timore assillante dell’incedere della vecchiaia e il ticchettare dell’orologio biologico. Con le bambine è comune complimentarsi, facendo notare quanto sono diventate carine e, appunto, “signorine”. Quando però con il passare degli anni la giovinezza comincia a sfiorire, l’industria cosmetica e la stessa autocritica insita in noi si esaspera per rallentare il normale processo di invecchiamento. Chiamare qualcuno “signora” o dare del “lei” infatti è quasi considerato un’offesa, anche per chi è felicemente sposato.

Altri casi sotto analisi

La narrazione però non finisce qui, anzi. Di parole se ne possono trovare a migliaia. Molte però girano sempre attorno a questa sfera. La sposa porta il corredo, ovvero un contributo economico che toglie alla controparte una piccola percentuale del peso economico della gestione della coppia. Prende però il cognome del marito e al pari di un oggetto viene assimilata in un nucleo familiare con cui condivide ben poco. La questione logicamente si complica quando si tratta di un’unione di carattere omosessuale. In questo caso molti hanno difficoltà a chiamare due persone contemporaneamente “moglie” o “marito”. Preferiscono optare per un termine più generico, ovvero “compagna/o” e in un qualche modo sminuire un legame amoroso, anche sigillato in sede legale. La generalizzazione è dietro l’angolo e per questo motivo va combattuta o almeno riconosciuta in modo da smantellare tutti i pregiudizi che nasconde.