E quindi si è scelto che a rappresentare l’Italia agli Oscar sarà È stata la mano di Dio. Non c’è niente da fare, siamo proprio i più bravi; Sorrentino poi, che te lo dico a fare? Un cineasta magistrale, una fonte di ispirazione. Ma anche gli altri registi candidati, ovviamente, non dimentichiamoli: Martone, Avati, Genovese, Moretti. E la lista è lunga, signora mia! Sono ben 18 i candidati! Noi italiani sì che sappiamo proprio come si fa il cinema. Come dice? Non c’è nessuna donna in lista? Ah… E vabbè, che sarà mai.

Esatto, che sarà mai? La discriminazione di genere, nel 2021, è ancora tutta lì, in quelle tre paroline che minimizzano da anni i grandi attacchi maschilisti che subiscono le donne. E il problema, ahimè, è ancora più a fondo, per trovarlo bisogna andare alla radice: le registe donne non sono presenti in lista perché, semplicemente, sono talmente poche da non esistere.

O meglio, esistono, ovviamente. Grazie, abbiamo anche noi il nostro posto nel mondo del lavoro, gender pay gap a parte. Ma se dovessimo contare quelle che conosciamo penso che le dita di una mano basterebbero e avanzerebbero. Quindi, che fine fanno le altre?

La situazione delle candidature dell’Italia agli Oscar deve servire per far luce sulla discriminazione di genere in ambito professionale

Io vorrei tanto che questa fosse la lamentela di una femminista incazzata, davvero. Ma non lo è, o meglio: non è solo la lamentela di una femminista incazzata. Perché evidenziare che su 18 professionisti del settore non sia presente neanche una donna vuol dire mettere davanti a un problema storico e culturale del nostro paese nei confronti non solo del cinema ma prima di tutto del lavoro.

Io sto per prendere la seconda laurea in Cinema, e sapete cosa mi chiedono sempre ogni volta che dico di studiare questa materia?: «Ah, quindi vuoi fare l’attrice?». Eh no, risposta sbagliata, il milione di euro resta a Gerry Scotti: voglio fare la critica cinematografica. Questa piccola, insignificante esperienza già da sé fa luce sul fatto che per una donna non siano considerati altri sbocchi professionali in questo settore.

Ma allora le registe in Italia ci sono o non ci sono? Ci sono, ovviamente, ma sono vittime di un sistema di finanziamento che già di suo è discriminatorio poiché premia soltanto professionisti già noti e famosi: più sono celebri, più il film aumenterà di valore e quindi sarà finanziato. Perché ammettiamolo, quasi tutti sceglieremmo di andare a vedere al cinema un film di Paolo Sorrentino anziché di un* emergente. A quest’ultim* viene quindi preclusa ogni possibilità di ricevere un finanziamento per la sua opera – specie se prima.

E torniamo quindi al nostro focus: abbiamo pochissime registe donne celebri in Italia (mentre scrivo mi vengono in mente solo Lina Wertmüller, Susanna Nicchiarelli, Cinzia TH Torrini ed Elisa Amoruso), e se non si dà modo alle nuove generazioni di emergere la loro presenza già esigua non farà che diminuire. Quest’ultime sono relegate al circuito dei festival, dove spesso non trovano sbocchi sul mercato internazionale perché distributori e produttori decidono di acquistare, a parità di condizioni, un film diretto da un uomo perché è più probabile che sia un successo economico (per i San Tommaso di turno consiglio la lettura del libro Il cinema di Stato).

Mettiamoci l’anima in pace: il femminismo serve, in ogni ambito sociale, culturale e professionale. Negare l’esistenza di un problema, dire alle donne che dovrebbero accontentarsi di un riconoscimento ogni vent’anni non fa altro che alimentare lo stigma e il silenzio attorno a esso. Ma vi svelo un segreto: non possiamo eliminarlo da sole. Non perché non siamo forti, anzi – per sopportare millenni di soprusi lo siamo pure troppo –, ma perché la nostra voce spesso non viene ascoltata e la nostra autorevolezza è messa in dubbio (tipo quando chiamano un magistrato “Avvocato” e una magistrata “Signorina”). Per questo motivo c’è bisogno che il femminismo si diffonda sempre di più e sempre più uomini ne facciano un valore fondamentale, in modo da poterci prestare la loro voce così da far luce su delle battaglie che, prima ancora che femminili, sono sociali.

Chiara Cozzi

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