Come la quarantena ha liberato le donne dai tacchi alti

Dagli anni Sessanta il reggiseno a ferretto è rimasto una gabbia sociale in cui le donne erano costrette, in tutte le circostanze lavorative e non in cui veniva richiesto “rigore”. Ma la “legge” vale anche se si lavora da casa? Il lockdown ha scardinato ogni istituzione.

In precedenza, rivoluzioni femminili hanno abbattuto la costrizione di abbigliamento, ma non del tutto le convenzioni che ancora oggi reclamano gli ambienti lavorativi. Se una donna va in ufficio, ci va con un tacco medio, un reggiseno ben fasciato e una bella camicia in seta. Non in tutte le aziende, ma quasi tutte se la battono per il compromesso del reggiseno.

Come mi vesto durante il lockdown

Con l’arrivo del Coronavirus e il lockdown le regole sulla formalità sono cambiate: nessuna regola. Lo smart working ha reso le donne padroni della loro stessa immagine. Un fenomeno che inevitabilmente rendeva ogni dipendente al servizio delle proprie richieste. E in questo, la necessità di suddividersi i compiti tra lavoro e faccende domestiche. Improvvisamente, le donne non hanno seguito l’istinto di doversi “fare” belle per un ambiente lavorativo che lo richiede. E, improvvisamente, hanno trovato il loro modo per sentircisi senza convenzioni.

Il simbolismo del reggiseno

Il lockdown, in questo modo, ha creato un’implicita rivoluzione femminile: addio al reggiseno. E dietro c’è molto di più. Superare il bisogno e l’obbligo morale dell’indumento è il superamento di una costruzione sociale del patriarcato.

La liberazione dalla biancheria è una conseguenza del lockdown che molte portano avanti, come se la quarantena avesse fatto da spartiacque. L’addio al reggiseno è un primo passo verso l’elogio della normalità: il diritto di sentirsi belle come ci pare, con cosa ci pare. E non doverlo essere mai per qualcun altro.

Rossella Papa

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