Louise Glück (New York, 22 Aprile 1943), vincitrice del premio Nobel per la Letteratura nel 2020, è una poetessa, saggista e accademica statunitense.
A valerle il Nobel è stata “la sua inconfondibile voce poetica che con bellezza austera rende universale l’esistenza individuale“. La grande forza della poetica di Glūck (che si legge “Glick”, nel caso in cui ve lo steste chiedendo) è proprio questa: partendo da esperienze di ispirazione biografica l’autrice rende note le sue sensazioni, spesso esasperate da un mondo a cui riesce a sfuggire solo rifugiandosi nel potere catartico della poesia. La ricerca della profondità è tradita dalla morfologia frammentaria delle frasi che rende la sua poetica essenziale ma nervosa, e quindi efficacemente espressiva.
Per meglio comprendere questa caratteristica della produzione di Glūck, è utile far riferimento al fatto che la poetessa sia spesso inserita nella corrente del confessionalismo. La stessa corrente di cui fanno parte autrici come Anne Sexton, Sylvia Plath o Emily Dickinson.
Proprio ad Emily Dickinson e alla sua “Nobody” , Glück fa riferimento nel suo discorso di accettazione del Nobel. Rigorosamente scritto e privo di immagini dell’autrice o di qualsiasi altro argomento al di fuori della poesia e di ciò che questa significa per lei.
Il discorso di accettazione del premio Nobel Louise Glück
Anche nel discorso di accettazione del Nobel, Glūck usa un riferimento alla sua vita privata per avvicinare il lettore al suo punto di vista. Inizia infatti descrivendo una cerimonia che lei stessa aveva inventato all’età di 6 anni in casa di sua nonna: l’assegnazione del premio per la miglior poesia.
Finalisti del concorso “The Little Black Boy” di William Blake e “Swanee River” di Stephen Foster. E già ideare un premio letterario, selezionare le poesie che partecipano e assegnare il premio (a 6 anni), sarebbe bastato, secondo la mia personalissima opinione, ad assegnarle il Nobel. Comunque Glūck parte da questi autori per esplorare la sua idea di poesia come patto privato tra autore e lettore.
I poeti che hanno sempre mosso in lei ammirazione, sono quelli di cui “si riesce a sentire la voce anche dopo che sono morti“, come Blake. Quelli che l’hanno fatta sentire l‘Eletta a cui parlano delle loro esperienze e paure, facendole diventare anche un po’ le sue. Non sente sue le “poesie da stadio” nè i “soliloqui che il lettore può ascoltare di nascosto“, apprezza le poesie che sono più dialoghi come con l’analista o con il confessore.
L’ultima parte del discorso è proprio sul premio Nobel. E’ in questa parte che Glūck si affida ad Emily Dickinson:
“I’m nobody! Who are you?
Are you nobody, too?
Then there’s a pair of us — don’t tell!
They’d banish us, you know.”
L”
L’autrice usa i versi di Dickinson per augurarsi che il Nobel non la porti troppo alla ribalta, perché il poeta che viene allontanato dalla sua zona di identità può sentirsi minacciato e spaventato. E per spiegare che lei, come Emily Dickinson è più adatta alla solitudine, facendo riferimento alla caratteristica di Dickinson di vedere la vita pubblica come “il regno nel quale la generalizzazione cancella la precisione” e augurando a se stessa che i suoi lettori continuino a sentirsi degli Eletti a cui lei si rivolge sempre soli, UNO AD UNO.
Intanto, l’assegnazione del Nobel ha già portato alla traduzione di “Ararat” in italiano. La raccolta sarà pubblicata in Italia da “Il Saggiatore” durante quest’anno.
Inoltre, Glūck sta per pubblicare la sua prima raccolta di poesie da 16^ donna vincitrice di un Nobel per la letteratura, a distanza di sette anni dal suo ultimo lavoro.
Articolo di: Serena Colucci
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