La descrizione della primavera nel De Rerum Natura di Lucrezio; nel nuovo appuntamento della rubrica ClassicaMente, le immagini della stagione dei fiori nel Proemio rivolto a Venere Genitrice.

Lucrezio, la primavera nel proemio De Rerum Natura: un’opera basata sulla filosofia epicurea

Nel Proemio del De Rerum Natura scritto da Lucrezio il topos del ritorno della primavera è descritto attraverso un’atmosfera bucolica, quasi eterea e idilliaca. La stagione primaverile illustrata dal poeta e filosofo romano è tratta dall‘Inno a Venere Genitrice, il Proemio che, per l’appunto, apre l’opera. Il De Rerum Natura è un poema didascalico di genere epico-filosofico scritto nel I sec. a.C. L’intera opera è permeata dagli assunti della dottrina filosofica dell’epicureismo. La stesura del De Rerum Natura da parte di Lucrezio mira a diffondere la dottrina epicurea, il cui pensiero di base è che la realtà delle cose, degli eventi, e della Natura stessa non è soggetta a leggi divine o umane; bensì esiste un ordine naturale delle cose che prescinde dagli dei e dagli uomini.

Lucrezio si fa così promotore di un messaggio di libertà intellettuale. Il poeta si rivolge agli uomini incitandoli a eliminare le paure irrazionali ma, non solo; li esorta alla presa di coscienza della realtà tangibile. Un ostacolo determinante per il raggiungimento della serenità è la superstizione che Lucrezio identifica con la religio; uno degli aspetti che provoca dolore e brama nell’esistenza degli uomini. La superstizione è l’intralcio maggiore che impedisce all’uomo il raggiungimento dell’atarassia; ovvero l’imperturbabilità propria del sapiente, conscio di poter sconfiggere la passionalità della sfera sensibile con la capacità di razionalizzare.

Il fluire delle stagioni attraverso l’invocatio a Venere

Il De rerum Natura di Lucrezio si apre con l’Inno a Venere, in cui il poeta si pone in contrasto con la dottrina epicurea la cui filosofia principale nega gli interventi di qualsiasi divinità nelle questioni umane. L’intero poema ha come obiettivo la distruzione di superstizioni e preconcetti originate dalla religio. Tuttavia, la tecnica dell’invocatio si pone come scelta stilistica che spesso ricorre nel poema classico. Ed è proprio nel rivolgersi a Venere, dea della bellezza, della sensualità e della stessa primavera che Lucrezio ricama una descrizione pastorale, quasi incantata, della stagione dei Floralia:

Ritorna la primavera,
ritorna Venere, ed ecco che le precorre l’alato
nunzio di Venere, e sulle orme di Zefiro, Flora,
davanti a loro, la madre, sparge per tutto il cammino
vivaci tinte e fragranze. Ne prende il posto l’estate
arida, e a lei si accompagna Cerere piena di polvere
e i venti etesii del Nord. Poi sopraggiunge l’autunno,
ed Evio Bacco è con lui. Poi vengon altre stagioni
ed altri venti, il Volturno altitonante ed il soffio
dell’Austro forte pei fulmini. E finalmente brumaio
reca le nevi ed il gelo torpido. Segue l’inverno
che batte i denti pel freddo.

I primi versi rimandano a un’immagine rigogliosa del ritorno della stagione primaverile, connessa alla dea Venere; Nume tutelare della bellezza e della stessa primavera che incede, con passo elegante. In seguito, il poeta intesse un’immagine della mite stagione attraverso gli elementi classici che la contraddistinguono all’interno della mitologia romana. La dea cammina lentamente ma chi la precede è il suo alato nunzio, Mercurio, suo figlio; e, ancora, Zefiro: il vento caldo e primaverile che alita leggero e tiepido soffiando, mentre Flora, dea delle fioriture, ne imita l’andatura. Davanti a loro Venere sparge tinte rutilanti e sgargianti per i sentieri, lungo il suo cammino, diffondendo fragranze soavi.

Alla descrizione pastorale, quasi arcadica della primavera, Lucrezio accosta poi la delineazione del fluire delle altre stagioni, quasi ritenute non all’altezza dell’eleganza primaverile, presieduta da Venere; ecco che avanza la canicola estiva, accompagnata da Cerere. In seguito l’autunno, il cui effluvio pungente del mosto si accompagna al Dio Bacco. E, ancora, altre stagioni: il Dio Volturno il cui vento soffia dall’alba del solstizio d’inverno, portando con sé il gelo invernale.

Stella Grillo