La montagna di fuoco sonnecchia. Appartiene a Napoli, o Napoli appartiene al Vesuvio? C’è chi dice il vulcano è l’essenziale, la città è l’accessorio. L’ultima eruzione è alle 16.30 del 18 marzo 1944. Solo una questione di tempo per gli studiosi, e di nuovo il Vesuvio, sputerà fuoco e lava.
Ultima eruzione del Vesuvio: il fuoco dei poeti

“Ieri sono salito sul Vesuvio: la più grande fatica che abbia fatto in vita mia. La cosa diabolica è arrampicarsi sul cono di cenere… Occorrerebbero dieci pagine e il talento di Madame Radcliffe per descrivere la vista che si gode mentre si mangia la frittata preparata dall’eremita“. Scriveva così Stendhal nelle “Epistole“. Una nota di folclore nella fiorente letteratura del Vesuvio. Coniugando il sacro e il profano, perché pare, esistesse realmente la figura dell’uomo che accoglieva pellegrini, a vino e uova sbattute. Detto ‘l’eremita’, viveva in cima. Forse era un ex parrucchiere londinese. Le insidie oscure del cratere, portavano i viandanti a incontrare questo ‘Romito’ sconfinato. Spesso, al di là del timore, gli erano grati per il rifugio e l’ospitalità.
Vesuvio doppia gobba, rosse fauci, che terrorizza tra tuoni e rombi. Lo troviamo nella poesia “La Ginestra“, e “Il fiore del deserto” (1836) di Giacomo Leopardi. “Latrava come un cane” scriveva Curzio Malaparte nel romanzo “La pelle” (1949). Nel film “Gli ultimi giorni di Pompei” di Mario Bonnard e portato a termine da Sergio Leone e Sergio Corbucci (1959): ai piedi del vulcano la storia d’amore fra un centurione romano ed una giovane cristiana. E venne il tempo della canzone “Funiculì funiculà” (1880) di Luigi Denza e Peppino Turco. Questa è considerata anche il primo ‘sponsor’ pubblicitario per rendere famosa la nuova funicolare, costruita per raggiungere la salita sul monte, sorpassando asini e cavalli. “Aisséra, oje Nanniné, me ne sagliette / tu saje addó, tu saje addó / Addó ‘stu core ‘ngrato cchiù dispietto / farme nun pò! (Farme nun pò) / Addó lu fuoco coce, ma se fuje / te lassa sta!”, correvano le note a pieno ritmo, come il vagone sulle rotaie. Era l’unico impianto di risalita al mondo operante su un vulcano attivo. Oramai non più esistente, a causa delle colate e dell’incuria umana.
Il guardiano di Napoli
L’evento dell’ultima eruzione del 1944, durò una decina di giorni. Interessò anche i comuni limitrofi di San Sebastiano, Massa, Pompei, Nocera, Scafati e Poggiomarino. Fu la prima volta nella storia del vulcano, di un’eruzione documentata con foto e video. Grazie alla presenza delle truppe americane e britanniche, giunte a Napoli dopo che la città si era liberata dall’occupazione nazista della Seconda guerra mondiale. E, grazie gloriosamente, anche a Giuseppe Imbò, l’allora Direttore dell’Osservatorio Vesuviano, che a rischio della propria vita, continuò a registrare le attività in evoluzione. Fontane di lava, quantità di ceneri trasportate dal vento. Le vittime furono 26, a causa dei crolli dei tetti delle abitazioni. Squadre di militari furono mandate per ripulire a spalate valanghe di polveri. Il maggiore Lewis che si trovava sui luoghi, racconta che i giovani andavano incontro alla lava cantando il “Te deum“. E venne fatta arrivare da Napoli la statua di San Gennaro. Ma tradizione vuole, che al di fuori di ‘casa sua’, la statua non faccia miracoli.
Microbi speciali e certe alghe si riproducono soltanto nella lava bollente o nei vapori puzzolenti. Il Vesuvio è rinomato per vini eccellenti prodotti sulle sue pendici, coperte da vigne e da densi boschi. Diceva Marziale a tal proposito: “Haec iuga quam Nysae colles plus Bacchus amavit”, “Bacco amò queste colline più delle native colline di Nisa“. Sulle anfore vinarie, trovate a Pompei, si trova spesso la scritta Vesvinum o Vesuvinum, ossia vino del Vesuvio. Anche oggi, dalle uve di quel territorio si ottengono il Bianco Dolce di Somma, il Vesuvio Extra, e il Lacrima Christi, uno dei migliori vini d’Italia. Che si trova nella variante rossa, rosata, bianca, spumante o liquorosa. Lo stesso che conosceva bene ‘l’eremita’: il padrone di casa del Vesuvio, lo produceva personalmente. E una volta, vi finirono dentro gocce di pioggia che l’annacquarono. Il suo sapore apparve squisito. Altro non erano che lacrime di Cristo.
Federica De Candia
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