Il nuovo album di Massimo Zamboni – musicista e scrittore, co-fondatore dei CCCP e dei CSI – si intitola “La macchia mongolica” ed è un affascinante viaggio in un luogo senza tempo tra passato ancestrale, presente e futuro in linea sullo stesso orizzonte.
Tredici brani per un cammino nomade quasi interamente strumentale. Da ascoltare, fruire tutto d’un fiato. Suoni e bordoni sinistri, inquietanti, come provenienti da un’altra dimensione. Interferenze, sonorità filtrate da effetti, intermezzi di chitarra. “La macchia mongolica” di Massimo Zamboni è tutto questo, cielo e terra sconfinata, mappa musicale a rievocare ambienti inospitali, freddi oppure desertici, tra steppa e montagna.
A oltre vent’anni di distanza, Zamboni fa ritorno in quei luoghi visitati insieme alla moglie e a Giovanni Lindo Ferretti, territori fertili per l’ispirazione del terzo e ultimo disco dei CSI, “Tabula Rasa Elettrificata“. In quella terra mitica – resa immortale dalle gesta di Gengis Khan, attraversata da Marco Polo, conquistata dalla Russia sovietica – Massimo aveva scoperto un’appartenenza ancestrale, comparabile solo a quella dei suoi boschi emiliani.
Finita quell’esperienza, nasce il desiderio per l’artista di avere un figlio. Caterina nascerà due anni dopo, con una macchia inequivocabile: un piccolo livido che scomparirà col tempo, la leggendaria macchia, segno che caratterizza oltre il 90% dei neonati mongoli. Questo simbolo sancirà l’appartenenza a due mondi spirituali/fisici: l’Emilia dei padri e la Mongolia del desiderio. Maggiorenne, Caterina tornerà laggiù, prima in famiglia, poi da sola.
“La Macchia Mongolica” è l’anima musicale di questo nuovo viaggio e Zamboni la plasma in tracce quasi interamente strumentali, composte e suonate insieme a Cristiano Roversi e a Simone Beneventi: chitarre dolci/serene ma anche taglienti/acide con virate psichedeliche; percussioni sciamaniche e bassi avvolgenti. Il risultato è un disco dalla natura cerimoniale e rituale. Popolato di animali mitologici, leggende, paesaggi dello spirito.
Una colonna sonora di immersione spirituale, indagine sull’Altrove che è in noi, esplorazione necessaria tra le stanze della memoria più intima. Ci sembra sterile, riduttivo indicare un brano prediletto, data la natura avvolgente dell’intero lavoro. Il mantra di ‘Lunghe Ombre’, l’unico cantato, potrebbe tuttavia evocare qualcosa in più, complice il testo.
“Senza portarne i segni sulla pelle, mi sento punto anch’io da una macchia mongolica. Ed è come se ognuna delle due vite, quella reale di casa, quella irreale qua – o è viceversa? – fosse contaminata dalla presenza dell’altra” scrive Zamboni a proposito del brano.
Un avventura per chiudere un cerchio, la storia di uomo/artista che cammina nuovamente le strade che l’hanno portato al presente, dialettica autentica tra identità differenti, senza romantici struggimenti, piuttosto l’urgenza espressiva della maturità, le parole e la musica per raccontare una visione del mondo.
In chiusura ricordiamo che, oltre a essere colonna sonora, “La Macchia Mongolica” è anche un libro, scritto insieme a Caterina Zamboni Russia e edito da Baldini e Castoldi, e un film-documentario diretto da Piergiorgio Casotti.