#Metrolibri: Solo bagaglio a mano

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Di Redazione Metropolitan

Bagaglio a mano come sinonimo di essenzialità. Bagaglio a mano come allegoria di vita. Vita come simbolo di viaggio. Viaggiare, spostarsi, cambiare prospettiva, guardare  le cose da angolature diverse, estranee alle solite, che spaventano, quelle che  insegnano molto più di quanto potevamo anche solo immaginare. Cambiare, alleviare il peso del bagaglio mettendo al suo interno solo l’indispensabile, lo stretto necessario per affrontare un nuovo viaggio. 

Gabriele Romagnoli, scrittore e giornalista bolognese, pubblica questo piccolo ma penetrante romanzo nel 2015, edito Feltrinelli. 

Divide il racconto in otto capitoli a cui precedono e succedono un prologo e un epilogo.  Otto capitoli divisi per “area tematica” dal medesimo sottofondo: leggerezza, non superficialità ma assenza di peso, verbo “alleggerire”. 

Uno dei drammi comuni ai molti è fare la valigia, soprattutto per noi donne che finiamo sempre col riempirla di cose che alla fine nemmeno indosseremo. Ci infiliamo dentro di tutto, anche quel vestito comprato quella volta ma mai messo (“sicuramente mi servirà”) che resterà piegato nella valigia.

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Non riusciamo, o non sappiamo scegliere e nel dubbio prendiamo tutto.  Anche e soprattutto l’inutile. L’autore parte proprio da qui, dal verbo carico di difficoltà “scegliere”, secondo solo all’altro  faticoso verbo: “amare”. Per scegliere bisogna riflettere, non che questo sia difficoltoso ma: da dove cominciare?

Comincia tutto in Corea del sud. 

Piccolo passo indietro: la Corea è il paese con il tasso di suicidi più alto al mondo. Nel tentativo di arginare questa problematica, cercando di convincere le persone ad allontanarsi dal pensiero di togliersi la vita, hanno creato un programma che consiste nel simulare la morte, letteralmente. Si redige un testamento con i relativi addii e si sceglie una bara dentro cui poi ci si stende e si aspetta. (https://www.ilpost.it/2015/12/15/corea-del-sud-suicidio/)

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C’è chi, una volta aperta la bara, è rimasto traumatizzato, e chi invece ha avuto l’illuminazione della vita.  

Sarà il momento carico di tensione mista a paura, terrore e angoscia, sta di fatto che è servito. All’autore è servito sicuramente. Gli ha dato pochi ma preziosi minuti per riflettere e per scegliere. Minuti in cui passa in rassegna alle più importanti decisioni, a quando ha reso la sua valigia più leggera scegliendo capi intercambiabili, scarpe comode, colori abbinabili, abiti evergreen (il tubino nero per intenderci).

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Racconta di chi, come lui, si è ritrovato a dover “alleggerire” il proprio bagaglio, fatto di scelte sbagliate ma non vane, di perdite ma anche di conquiste.

Come la storia di un suo caro amico che prende il fallimento della sua azienda come un’occasione per liberarsi di cianfrusaglie, rancori, delusioni. Smantellando l’azienda, frutto di anni di sacrifici, vendendo anche l’ultimo portapenne a chi ne aveva bisogno si è liberato e ha trasformato il fallimento in successo, trovando in quell’infausta occasione un momento di redenzione.  

 Più si è leggeri e più si è veloci. Più si è veloci e prima si arriva a galla.

Roberto Romagnoli
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Un episodio in particolare mi è rimasto stampato nella mente. Racconta di quando l’autore arriva a Kigali, capitale del Ruanda, per lavoro. Quello che ricorda della città è il continuo muoversi delle persone, come se fossero in ritardo per qualcosa o qualcuno. 

Ma verso dove se vivi in una città senza fermate dell’autobus, insegne di bar o locali. 

Incontra un ragazzo che parla lingua inglese e chiede spiegazioni. La risposta avrebbe spiazzato e addestrato chiunque: “Sir, i bersagli mobili sono più difficili da colpire”. La loro vita gli aveva insegnato qualcosa che sarebbero stati costretti ad applicare a tute le circostanze, anche meno drammatiche; se ti sposti è più difficile abbatterti. 

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Il proverbio “chi si ferma è perduto”, tralasciando che è stato pronunciato da Mussolini e allontanandosi dal significato che al tempo gli diede, magari rende più l’idea. 

E se questo doversi sentire leggeri richiedesse anche il “non appartenere” a niente, a nessuno? Viviamo ormai in un’era in cui più possiedi e più ti senti incluso, dimenticandoti troppo spesso delle cose che contano. Io dapprima, senza ipocrisia, mi lascio spesso affascinare dai nuovi trend, dalle ultime mode, dal nuovo iPhone per cui mi sono indebitata con mio padre (è pur sempre un debito!). 

Abbiamo bisogno di possedere per dimenticarci di non avere. Prendiamo tutto per riempire vuoti e rimaniamo fermi a rimuginare su cose che per fortuna o per iella non risolveremo.  Passiamo la maggior parte del tempo immaginando la persona che vorremmo essere domani dimenticandoci di chi siamo oggi. E nel frattempo l’orologio non si ferma. 

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Niente accade per caso. Ogni evento è un’opportunità per cambiare rotta, per deviare percorso, per intraprendere un nuovo viaggio. 

C’è chi riesce ad azzerare la propria vita e iniziare con nuove sfumature, c’è poi chi come me che riesce a riempire i vuoti con piccole cose: tempo trascorso con le persone a cui tieni, qualche lacrima davanti ad un film, un buon libro. 

Ho ancora questo viaggio da godermi per pensare di doverne intraprendere un altro.  Riempio ancora la valigia di cose inutili, ma ho incominciato a delimitare quelle essenziali.

E va bene cosi.