Nel giorno del suo compleanno, ecco a voi un focus su uno degli allenatori più rivoluzionari della storia del basket. Tra il suo passato europeo e il suo presente americano, ecco come Mike D’Antoni ha rivoluzionato il modo di concepire lo sport più bello del mondo.

Mike D’Antoni, la storia delle RedShoes

Nel 1990, Mike D’Antoni lasciava per sempre il basket giocato e intraprendeva la carriera da allenatore. Quell’anno, venne giudicato il miglior playmaker della pallacanestro italiana di tutti i tempi. Esatto, italiana. Perché quando Pippo Faina, coach dell’Olimpia, decise di firmare Mike nel 1977, già intravedeva un futuro da naturalizzato, viste le origine italiane del playmaker. Mike divenne Michele con la maglia della nazionale soltanto 12 anni dopo, ad ormai 38 anni e dopo aver scritto e riscritto la storia dei biancorossi. Il suo futuro era già facile da immaginare. Infatti, a proposito di rivoluzionari, coach Dan Peterson aveva dichiarato che la grandezza di D’Antoni stava proprio nell’essere un allenatore in campo. L’attuale allenatore di James Harden divenne simbolo del basket dell’epoca. Un basket ragionato, tattico, dove l’intelligenza cestistica e la visione del gioco erano più importanti dell’atletismo e della fisicità. Mike, semplicemente, vedeva tutto prima e guidava i compagni come un generale, dalla classe immensa. Nelle 17 stagioni passate in Lombardia (13 da giocatore e 4 da allenatore), è stato decisivo nel conquistare 5 scudetti, 2 Coppe dei campioni, 2 Coppa Korac, 1 Coppa Intercontinentale e 2 Coppa Italia. Detiene ancora oggi il record di punti segnati da un giocatore con la maglia dell’Olimpia e la sua numero 8 guarda dall’alto del Forum la squadra che lui stesso ha reso grande con la storica Banda Bassotti.

Mike D'Antoni
Mike D’Antoni durante la cerimonia di ritiro della sua numero 8
(photo credits: Olimpiamilano.com)

Mike D’Antoni, la nascita di una nuova idea

Come hanno discusso Lorenzo Mundi e Hugo Sconochini nell’intervista rilasciata a Metropolitan Magazine, Mike D’Antoni ha inventato un modo di attaccare, totalmente rivoluzionario e mai visto prima. Tutto iniziò nel lontano 1993, quando, da allenatore dell’Olimpia, decise di mischiare le carte in tavola per provare a cambiare l’inerzia di una stagione deludente. E, anche grazie ad un cast non indifferente, (Davide Pessina, Aleksandar Djordjevic, Paolo Alberti, un Dino Meneghin rientrato da Trieste e ormai a fine carriera e lo stesso Hugo Sconochini per fare qualche nome…), ci riuscì.
“I just one day just decided to do it the way I wanted to do it, and be damned the consequences.”
Le conseguenze furono la conquista della Coppa Korac e la consapevolezza che quel rischioso modo di giocare potesse funzionare.

Phoenix e i 7 seconds or less

A Phoenix si sviluppò il massimo splendore di questa tattica. Steve Nash, Amar’e Stoudemire e via dicendo furono i migliori interpreti per poter portare sul campo gli ideali di Mike e, secondo molti, fu la ragione principale per cui i Suns furono per anni una contender, senza però andare mai oltre le Finali di Conference.
Steve Kerr, non molto tempo fa, ha parlato di Mike, come un suo punto di riferimento nella costruzione della sua idea di gioco, più che mai vincente e spettacolare.
“There aren’t many innovators in coaching”. “There’s usually a few key figures who change the way everybody else thinks … I think what makes Mike unique is he is one of those innovators.”
E l’attuale allenatore dei Warriors di innovators se ne intende…

Houston Rockets: la massima espressione di small ball

Con il passare degli anni, Mike ha sempre adattato il suo sistema di gioco a seconda della franchigia di cui era head coach, non sempre ottenendo l’effetto desiderato. Dopo alcuni deludenti anni tra Knicks, Lakers e 76ers, nel 2016 ha preso in mano le redini degli Houston Rockets. Nella sua prima stagione, Houston fu eliminata dai San Antonio Spurs nelle Semifinali di Conference (complice la storica stoppata di Manu Ginobili su James Harden). Già allora si intravedeva un modo di attaccare totalmente indirizzato al tiro da tre punti, non a caso il quintetto tipo nei momenti clutch era composto da Patrick Beverley, James Harden, Eric Gordon, Trevor Ariza e Ryan Anderson, tutti potenzialmente molto pericolosi dall’arco.
Quest’anno abbiamo visto il punto più estremo del modello D’Antoniano, quando una trade ha coinvolto l’addio di uno dei tasselli fondamentali Clint Capela e l’arrivo di Robert Convington, formando un quintetto con Pj Tucker, reinventato centro di 1.96 m. Daryl Morey, GM della squadra della città di Travis Scott, si è fidato ciecamente di Mike, considerando che il suo contratto è in scadenza e con questa stagione dal finale incerto è difficile immaginare il futuro dei Rockets.

Difficile immaginare anche dove arriveranno in futuro le idee di Mike D’Antoni, perché come dice lui stesso, i tempi passano e cambiano e così anche il basket.
“Sapete qual è il bello di questo sport? E’ in continua evoluzione. E alcuni vecchi allenatori vogliono mantenerlo tale quale a come sono cresciuti, ma non è lo stesso. E’ necessario cambiare con i tempi e accompagnare gli altri aldilà di ogni limite.”
Mike D’Antoni
Happy Birthday Legend!

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