Il 10 Agosto del 1890 apparvero sulla rivista toscana Vita Nova nove componimenti di quadretti sereni e popolareschi. L’autore è Giovanni Pascoli, che un annetto più tardi li dedica insieme ad altri all’amico Raffaello Marcovigi appena sposato, come un bouquet nuziale. Un bouquet di Myricae, ossia tamerici. Il rimando latino nel nome della raccolta è all’umiltà della pianta, che si stacca di poco da terra. Ma nella terra (humus) stanno anche i morti della famiglia del poeta, invendicati. Quel 10 Agosto, infatti, è il ventitreesimo anniversario dell’omicidio del padre, Ruggero Pascoli. Una morte incombente, irrisolta, che proietta il suo alone gelido sulle poesie più agresti e innocenti del Pascoli.
Pascoli, il tema della morte nella prefazione di Myricae
Il tema funebre non appare che nella seconda edizione delle Myricae, quando Pascoli inserisce una prima prefazione dal tono lugubre che dà tutto un altro significato alla raccolta. Ora anche le poesie più frammentarie e impressioniste hanno un chiaroscuro di ritualità e risarcimento. Il poeta vendica come può la sua tragedia familiare, o almeno protesta di non poterlo fare. Non voglio morire senza aver fatto un monumento al mio babbo e alla mia mamma afferma in una lettera a Severino Ferrari nel gennaio del 1892.
Nella terza edizione, da rancoroso e rivendicativo il tono si fa elegiaco: Rimangano rimangano questi canti sulla tomba del padre! Il poeta chiede perdono al lettore delle sue lacrime e dei suoi singhiozzi poiché qui meno che altrove il lettore potrà o vorrà dire: Che me ne importa del dolor tuo? Una tomba nera e tetra ha oscurato la vita del poeta, ma egli non vuole vendetta e invita gli uomini a benedire la vita che è bella.
Tuttavia gli uomini preferirono piuttosto le tenebre che la luce, come gli indica il Vangelo di San Giovanni. Col loro male volontario hanno deturpato la vita e la natura, definita madre dolcissima (qualcosa da ridire avrebbe Leopardi). Il tema ossessivo della morte dei familiari, da parte di Pascoli, viene affrontato qui con maggior mansuetudine, quasi col desiderio di perdonare, che verrà espresso nella poesia-proemio Il giorno dei morti. La prefazione si conclude con un’ultima parola che non è d’odio, quindi, ma di amore.
La morte incombente ne Il giorno dei morti
Il giorno dei morti apre la raccolta soltanto nella terza edizione del 1894, ma alcuni frammenti apparvero in esergo già nella seconda. Composta da ben 212 versi, è divisa in terzine dantesche (endecasillabi in rima aba bcb cdc…), chiuse da un distico in rima baciata. Nel giorno dedicato ai defunti (2 Novembre) il poeta rimembra i suoi morti e li rivede nel camposanto, tormentati dalla pioggia battente, stretti stretti che si lamentano dell’abbandono in cui sono stati lasciati. È lui l’escluso, il sopravvissuto, perché nel cimitero si ricrea il “nido”, caldo e accogliente, in cui ciascun membro della famiglia consola l’altro. L’atmosfera domestica e quella sepolcrale si amalgamano e confondono fino a diventare una cosa sola.
In questo capolavoro di poesia cimiteriale, Giovanni ripercorre l’ecatombe familiare dando voce a ciascuna delle anime morte e non si dimostra meno abile di un Dante o di un Edgar Lee Masters. A parlare sono: la sorella Ida morta appena nata nel 1862, il padre freddato nel 1867, la sorella Margherita e la madre (1868), i due fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876). La famiglia disgregata dalle tragedie della vita si riunisce spiritualmente nella pace dell’oltretomba, in cui sono i morti che pregano Dio per la salvezza dei vivi. Nella quiescenza dell’aldilà si placa anche la sete di vendetta. Ecco la voce del padre assassinato:
Un padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi alla lor vita, o benedetto,
quella che un uomo, non so chi, m’ha tolta.
Perdona all’uomo, che non so; perdona:
se non ha figli, egli non sa, buon Dio…
e se ha figlioli, in nome lor perdona.
Che sia felice; fagli le vie piane;
dagli oro e nome; dàgli anche l’oblio;
tutto: ma i figli miei mangino il pane.
Lorenzo La Rovere
Seguici su Google News