“Motherless Brooklyn”, il nuovo film di e con Edward Norton, è recentemente approdato nei cinema italiani e queste sono le nostre impressioni.
Per analizzare “Motherless Brooklyn”, partiamo dalla sua trama – senza spoiler –, molto semplice e complessa al tempo stesso. Lionel Essrog (Norton) è un giovane affetto da sindrome di Tourette che lavora presso un’agenzia investigativa. Le sue interazioni sociali sono spesso compromesse da questo suo disturbo in un’epoca – gli anni Cinquanta – in cui non è ancora noto ai più il suo nome e le sue caratteristiche.
Il suo capo, Frank Minna (un arcigno Bruce Willis) ha prelevato Lionel e i suoi amici dalla strada, evitando loro una brutta fine. Soprattutto per Lionel, considerato un freak (un fenomeno da baraccone), Frank rappresenta molto più che una guida, infatti è stato lui a conferirgli il soprannome di “Motherless Brooklyn”, in riferimento alla perdita della madre e alla sua provenienza (Brooklyn). Pertanto, la morte di Frank – avvenuta a causa di un gruppo di scagnozzi –, non può che spingere Lionel e gli altri soci a cercare i carnefici, immergendosi in una New York corrotta sino al midollo, con giochi di potere, sfruttamento, razzismo e tradimenti che finiranno per mostrare al Nostro l’altra faccia della città.
Alla domanda «A quale genere appartiene questo film?», tutti cosa risponderebbero? Noir, molto probabilmente. Sarebbe una risposta corretta, ma non al cento percento. Bisogna ritornare un po’ indietro, scavare nella storia del cinema per consegnare una definizione perfetta a questo film, il quale, un tempo, sarebbe stato classificato come hard–boiled.
Per chi non lo sapesse, l’hard-boiled fu quel genere che iniziò a distaccarsi dal noir intorno alla metà degli anni Trenta, codificandosi su altri piani rispetto al suo antesignano. C’era un detective privato, una femme fatale, un caso che, pian piano, si ingarbugliava sempre di più mostrandoci, alla fine, il vero nemico di turno, ossia il politico corrotto, l’imprenditore, un ricco annoiato, ecc. E badate bene, si era ben lontani dal giallo alla Agatha Christie. Qui non si cercava di individuare l’assassino, bensì si smascheravano complotti. E, per l’epoca, era un genere così innovativo che, nel gradimento della gente, soppiantò il giallo classico e persino il noir.
Poi, dopo gli anni Sessanta, l’hard-boiled, ormai svuotato della sua innovatività, ritornò a essere considerato parte del noir, evolvendosi verso i lidi del thriller e ritornando in forma classica solo in poche occasioni (“Il Lungo Addio” di Robert Altman su tutte). Tuttavia, il fascino del detective privato, ammettiamolo, non lo si può dimenticare.
Anche l’autore del romanzo originale, Jonathan Lethem, ne rimase affascinato quando decise di scrivere questo hard-boiled classico che raggiunse le librerie nel 1999. Debitore – parole sue – di quello che è il cicerone per eccellenza della sua natia New York, Martin Scorsese, nel suo “Motherless Brooklyn” cartaceo, Lethem decise di raccontare le strade della Brooklyn non trendy degli anni Cinquanta, quando la maggior parte dei suoi abitanti era di etnia italica, ispanica o afroamericana.
La versione cinematografica di quel romanzo è arrivata dopo ben vent’anni, sebbene fosse pronta una sceneggiatura già dopo pochi mesi l’uscita del romanzo. Edward Norton, infatti, ha affermato di averci pensato sin dal 2000, rifiutando più e più volte le varie stesure, riscrivendole sia insieme ad altri sceneggiatori che di suo pugno. Un film travagliato che, come pochi altri possono vantarsi, è risultato parecchio fedele al romanzo.
Ma perché tutto quell’excursus sull’hard-boiled? Beh, semplice. “Motherless Brooklyn” appare, per lo più, come un rifacimento di ciò che furono gli hard-boiled degli anni Quaranta e Cinquanta. L’unica vera modifica apportata è proprio quella relativa al protagonista. Il duro, sarcastico e dongiovanni Humphrey Bogart fa posto allo schivo, melanconico e freak Lionel Essrog. Il protagonista non è più il classico though and cool, bensì un outsider. I suoi scatti, il suo continuo ripetere «If», mascherandolo dietro a uno starnuto, il suo odio profondo per quell’«anarchico» che si fa spazio nella sua testa, portandolo a spegnere un fiammifero per ben tre volte prima di accendere una sigaretta alla tipica biondona – che puntualmente va via insultandolo –, differiscono profondamente dall’iconografia del detective alla Bogart, il quale, probabilmente, quella bionda l’avrebbe sedotta in pochi istanti.
Norton sfiora livelli di tragicommedia difficilmente apprezzabili in tempi come questi dove il politicamente corretto domina stucchevolmente su tutto. Il suo personaggio, tragico e malinconico, viene raccontato con salace ironia, soprattutto per via dei giochi di parole che il suo cervello «anarchico» inventa. La storia non ci racconta di un Essrog che deve trasmettere depressione e afflizione allo spettatore. Affatto. Crea empatia tramite la ridanciana tragicità di quegli scatti.
È questo il più grande pregio del film. Non spiega, non è retorico nella presentazione di un personaggio così emarginato. E, sebbene la sua storia possa essere la classica redemption tanto cara agli americani – la rivalsa sociale di un outsider –, il modo in cui essa viene presentata distrugge ogni timore.
Tolto questo, come detto, “Motherless Brooklyn” è molto simile ai classici hard-boiled d’un tempo, con sviluppi parecchio codificati, ma non per questo superati. Come struttura e intreccio, l’intero lungometraggio ricorda “L’Assoluzione”, film di Ulu Grosbard con Robert Duvall e Robert DeNiro. Come in quel film, il vasto numero di personaggi, l’intreccio e gli sviluppi socio-politici, sono abilmente condensati in una durata poco superiore alla canonica ora e mezza, servendosi di un ritmo rapido che, comunque, lascia spazio ad attimi di riflessione e di pausa.
Uno su tutti: la marijuana fumata da Lionel; usata a scopi medici per placare gli scatti, viene rappresentata con delle inquadrature registiche quasi ipnagogiche, più vicine agli effetti indotti da mescalina o Lsd che non dalla semplice marijuana.
Poi che dire sul cast? Di prim’ordine. Willem Dafoe buca lo schermo. Un trasformista capace di valorizzare tutte le parti che gli vengono assegnate. Qui interpreta l’idealista che è costretto a piegarsi ai voleri del potentato per poter vivere di stenti. Un personaggio drammaturgicamente perfetto, che nasconde ben altro oltre alla semplice definizione di «idealista».
Era un ingegnere, ma il crollo del ’29 lo portò in miseria. La sua storia è il perfetto contraltare di quella di Lionel. Un uomo romanticamente legato al sogno americano, nonostante tutto. Un uomo d’altri tempi, con alti valori morali malgrado il Mondo e le persone che lo circondano – molto più vicine di quanto si pensasse – non fanno altro che sfruttarlo e lasciarlo nella povertà. Un personaggio allegorico, così dannatamente reale e così paurosamente moderno.
Oltre al citato Bruce Willis, menzione d’onore per Alec Baldwin, il cui volto rotondo e sardonico si presta benissimo a interpretare il politico Moses Randolph, personaggio spietato, ma con un’etica tutta sua, spiegata con un monologo fantastico, dove non si pone come il cattivo dei racconti d’avventura, ma diventa il perfetto emblema del potere e delle sue contraddizioni.
Parole al miele anche per la musica. Sia per quanto concerne la colonna sonora sia per la presenza della musica come elemento di colore del film. Il grande Wynton Marsalis si occupa di suonare la tromba come si conviene in un noir, arrangiando in versione jazz “Daily Battles“, la canzone composta da Thom Yorke (insieme a Flea). Inoltre, ispirati dall’iconografia del jazzista che vive d’eccessi e di promiscuità – un misto tra John Coltrane e Charlie Parker -, come personaggio secondario appare un innominato trombettista ambiguo che interpreta la parte dell’antieroe. Una massiccia presenza della musica che rende calde e vicine quelle ambientazioni così distanti dai giorni nostri.
“Motherless Brooklyn”, in conclusione, potrebbe essere l’esempio perfetto di classico che incontra il moderno. Un hard-boiled dalla trama facilmente codificabile, ma che non scade nel manierismo, trasportandoci in un mondo già visto, ma raccontato in un modo nuovo, con un protagonista diverso da quello che gli amanti del genere sono abituati a vedere. Un film consigliato anche per coloro che masticano meno il mondo dei detective.
MANUEL DI MAGGIO
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