Mumble, mumble Martin Margiela

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Di Redazione Metropolitan

“Era una casa molto carina, senza soffitta, senza cucina”.

Abbassa la voce,

a bassa voce,

voce.

Questo non significa niente, è solo

ricerca dell’essenziale.

 

M.M e J.P.Gaultier

Era il 2013 quando, una ragazza piena di sopracciglia contratte, presentava un figurino al professor S.C. per ultimare il suo esame Moda Donna-modulo terzo.

Nell’osservante silenzio di un’aula accademica, vari volti di studenti in circolo si tendono sul foglio disegnato. Morbosamente dubbiosi (“il mio è: meglio/peggio/meglio/peggio”), aspettano inquieti il verdetto del prof.essionista.

Sentenzia il giudice:

“Ma questo, Virginia, è una margielata”.

E no, non era un complimento.

 

Margiela è uno stilista belga, fondatore del brand Maison Martin Margiela (1988).

Che bel suono ha, Maison Martin Margiela.

Maison Margiela, è anche bello da scrivere.

I nomi sono importanti, sono la forma con cui ci presentiamo e, nell’ipotesi in cui fondassimo un’etichetta di moda, quella che rappresenta ciò che vogliamo esprimere con i nostri abiti. La maggior parte, se ci facciamo caso, riporta il nome o solo il cognome del fondatore (Prada, Chanel, Yves Saint Lauren da poco solo Saint Lauren, Vivienne Westwood, Tom Ford) oppure qualcosa che abbia già dentro un significante trasposto nelle caratteristiche del brand: Circus Hotel, Pinko, Guess, Mango, Intimissimi e via discorrendo. Spesso, ma non sempre, la scelta del nome determina anche il posizionamento del target, infatti saremo tutti d’accordo che nel lusso si predilige l’uso di nome e cognome del leader, mentre per le seconde linee e grandi catene la scelta ricade su nomi onomatopeici, sigle, concetti.

Maison Martin Margiela.

scatto di una sfilata della Maison

È belga, quindi parla il francese, la lingua che, cliché vuole, appartenga alla comunicazione di moda per antanomasia, una moda alta, elegante, lussuosa. Il Belgio ha, infatti, ben tre lingue ufficiali; olandese (Huis Martin Margiela), tedesco (Haus Martin Margiela) e francese (Maison).

Non c’è dubbio che suoni meglio, ma, sicché parliamo di un rivoluzionario,

Esiste la forma senza contenuto,

ma non esiste il contenuto senza forma.

Così Martin decide che il suo laboratorio di abiti sarà una casa. Non un tugurio per single universo-centrici, ma una casa; un luogo di accoglienza, dove un insieme di persone lavorano insieme.

E questo è il seme da cui possiamo poi far sorgere altre riflessioni. È il primo atto con cui sigla la sua rivoluzione stilistica, da subito in contrapposizione ai colossi del lusso. Margiela non entrerà mai in competizione con nessun altro brand poiché già agli esordi della sua introduzione al mondo, alla stretta di mano iniziale con i suoi competitors, risponde in un’altra lingua. La sua.

Sapete chi mi ricorda Martin? Mina. Il genio non è solo rompere gli schemi, dare nuove interpretazioni, lavorare con eccellenza. Credo che il genio stia anche nell’intelligenza di ammettere quando è il momento di piantarla. Quando arriva sera e si scende dal palco, quando ci si trasforma in cometa e si lascia una scia di sbigottimento collettivo. Altro che stelle. Così vi anticipo che il signor Martin si è già ritirato e non sappiamo dove sia, ma personalmente, spero che non tornerà.

Anche se M.M. quel palco non l’ha mai calcato e, al contrario, si è sempre rifiutato di salirci, evitando addirittura la classica uscita del dietro le quinte alla chiusura dei propri show, attirando su di sé cicalecci facili. La maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che Martin è uno snob. Incurante delle critiche, per lungo tempo ha esagito che le modelle ritornassero ad essere manichini senza occhi, labbra, espressioni. Coperte in viso, mascherate, nascoste da parrucche e bende, totalmente rimesse al servizio dell’abito ed al ruolo per cui in effetti venivano originariamente assunte: sfilare. Dimenticatevi Linda, Claudia, Naomi, dimenticatevi di me, questi sono i vestiti, questo è quanto.

La sua è una moda fatta di assenza. Decisamente, la sua è una moda di essenza.

invito alla sfilata ss 1989 e uno scatto dello show

Nel 1989 la sua terza sfilata viene ambientata in un playground pubblico nella periferia di Parigi dove risedevano diverse comunità etniche. Martin e la sua partner in affair ripagano l’ospitalità dei residenti portando i bambini a spasso per Parigi e commissionano loro gli inviti per l’evento. Non c’è pavimentazione, passerella, backdrop, luci effettate, non ci sono nemmeno le sedie; chi prima arriva meglio alloggia. Si annullano le gerarchie del fashion system dando vita ad una sfilata anarchica in cui bambini di tutti i colori zigzagano sulla passerella insieme alle modelle che inciampano e vagano tra la folla seduta. Sembra tutto molto punk, ma, sebbene lo stile grunge degli abiti, il risultato non potrebbe essere più minimale.

Minimalismo, ironia ed educazione.

Minimalismo non è sinonimo di pochezza,

ironia di superficialità,

educazione di manierismi.

Non mi interessa parlarvi della storia della maison, il web è pieno di articoli interessanti al riguardo, però per chi non conosce Margiela, sarà importante estrapolare dal suo lavoro alcuni aspetti rilevanti che mi esaltano e che spero siano significativi per riflettere sul concetto di identità. Martin è un polemico, ma la genialità delle sue invettive sta proprio nell’evitare di parlare, strillare, fare gesti inconsulti contro le telecamere. Il suo lavoro è dirompente e shoccante nonostante la sua narrativa resti pacata, discreta, quasi disinteressata. Recupera gli spazi e gli oggetti, dando una nuova chance al vecchio; compra edifici abbandonati, preserva le crepe, rimbianca i muri, stende teli di cotone sui mobili, replica modelli vintage tali e quali (REPLICA), recupera carte, plastiche, materiali edili e li cuce assieme sconvolgendo il lusso e reinterpretandolo. È facile pensare a Duchamp, non è vero?

le collezioni di M.M.M

Nel suo laboratorio (bianco), i collaboratori in camice (bianco), giustappongono un’etichetta (bianca) negli abiti, cucita grezzamente con un filo spesso (bianco) alle quattro estremità, così che possa essere facilmente rimossa, per preservare l’anonimità del marchio. Sopra le label interne sono stampati i numeri da 1 a 23, e a quello cerchiato in nero corrisponde la linea di riferimento.

A questo punto mi domando quale sia il colore prediletto dallo stilista e se ci sia stato un solo cliente che abbia davvero staccato quell’etichetta, quella firma anonima che lo rende così identitario. In seguito avrà poi premura di segnalare il numero di ore che ci vogliono per creare un capo haute couture, il che è davvero un buon modo per far apprezzare all’acquirente un oggetto di cui non ha proprio bisogno. Potrei, adesso, avviare una breve polemica sull’originalità dei marchi contemporanei, i quali sono percepiti come innovativi e avanguardistici ma che, tuttavia, hanno radici ben piantate nel seme di Martin, senza fare nomi mi riferisco a OFF-WHITE o Vetements, ma non la provocherò, non ne abbiate pena.

Tanto è irriverente la sua moda, tanto più egli è inconoscibile, non so nemmeno se sia gay, a dire il vero. Le poche cose che ci ha detto M.M. avendo sempre lo zelo di parlare usando il “we” (we did, we worked…), ce le ha comunicate via fax, e sul finire dei ’90 replica a Vogue in maniera molto criptica, quando la rivista lo include nel gruppo di “renegade-turned-establishment designers” e gli chiede di definire il movimento avanguardista:

“A pigeonhole into which the point of view of some is placed when it is considered difficult to assimilate into the lives of many.”

“Un buco-da-piccioni in cui il punto di vista di alcuni viene messo (dentro), quando è considerato difficile da assimilare nelle vite di molti”

Mumble, mumble, Martin Margiela. Non credo che le parole e le collezioni dello stilista siano facile da capire, né da digerire; sono sicura che chi nel tempo si sia impegnato a costituire il proprio senso estetico, magari sfogliando chili di Vogue e Bazar, rimanga confuso dai suoi azzardi, proprio come capita di sentirci di fronte all’arte contemporanea. Ok, c’è un concetto forte, lo sento, ma è bello? Mi piace? Evitiamo le ipocrisie ed ammettiamo che definire bello un corpetto ricavato da una busta di plastica è difficile. Martin, come l’arte contemporanea non vuole che godiamo della beltà della moda, vuole che entriamo dentro un discorso e lo disossiamo fino a saziarcene. Non è un esercizio di stile ma un compito di ingegneria, un tema sul recupero, uno sfogo contro gli stilemi della bellezza canonica.

E funziona. Funziona perché le persone, anche quelle che non hanno un’elevata coscienza di sé, avvertono quando qualcuno comunica la sua essenza. Funziona perché essere sé stessi ripaga sempre, specialmente quando si ha qualcosa da dire. Altrimenti cari, è meglio non dire niente.

In breve tempo la moda della Maison è diventata un culto.

Un altro dato importante che ci rivela quanto M.M sia un eclettico geniale, sta nell’apprendere che Hermes l’abbia chiamato come direttore creativo dal 1997-2003. Hermes, quello della Birkin, dei cavalli e del lusso più lusso che esista. Hermes, quello che evoca foulard e sobrietà, il brand che ancora oggi non fa sconti a nessuno e non entra nei contemporanei mall di lusso per preservare la sua immagine di brand elitario e irraggiungibile. Ebbene, Martin penetra nel DNA della casa, fa il suo senza sconvolgere i codici stilistici del marchio e contemporaneamente porta avanti la Maison Margiela, lanciando altre linee, profumi e gioielli. E poi che è successo?

Martin se ne va. La direzione viene proposta a Raf Simon (declina) e a Haider Ackermann (declina) nel 2009, dopo essere stato acquisito da Disel group dell’italianissimo Renzo Rosso, maggioritario della holding OTB (only the brave). Gli succede Jhon Galliano, una personalità agli antipodi di Martin.

Quel che accade dopo è storia.

raro fax di M.M

Martin Margiela è la personificazione dell’ossimoro “silenzio assordante”. Non mostrandosi mai, eludendo la folla e gli applausi e denigrando la moda brillante (dai diamanti non nasce niente) è stato il designer senza volto, l’uomo invisibile della moda.

E questa sua scelta consapevole lo ha portato ad essere lo stilista più interessante di sempre, e a lasciare un segno (bianco) indelebile. La sua identità celata, ha creato in noi tutti il paradosso di riconoscerlo bene tra i tanti, lui che non voleva essere visto, è lampante per tutti coloro che si interessano di moda. Senza voce, a voce bassa, ha ricercato l’essenza della sua poetica, riuscendo a parlare di chi era lui, senza fraintendimenti o paragoni, proprio perché il confronto non l’ha cercato mai, affrontando sfrontatamente uno scontro frontale. Eh, eh.

Allora vi chiedo, cosa fate voi per essere voi stessi? Siete punk o pop, anarchici o conservatori, siete gay o sposati, amate i cani o i gatti? Cercate la vostra voce con la vostra voce, o vi limitate ad imitare quella più in voga, magari effettandola un po’, per dargli un suono un po’ più trap?

Ripresi il figurino in mano, lo posai sul banco e andai in bagno. Distesi le sopracciglia e la camicia bianca, i nervi abbottonati fino a su. Mi guardai in faccia allo specchio e pensai:

“Una margielata.

Bhà, io non l’ho capito”.