Recensione breve e priva di buon senso, della terza stagione di Narcos con spoiler qui e là.
Come tutto ebbe inizio…
Nelle notti insonni si hanno idee, come quella di guardarsi tutta la terza stagione di “Narcos”, serie che ha fatto sognare la vita da narcotrafficante che tutti Noi, da bambini, sognavamo. La sigla (Tuyo-Rodrigo Amarante), mi catapulta in Colombia, cantata più volte nelle notti di luna piena con gradi alcolici da galera. Mangio volentieri le prime puntate spinto dall’eccitazione che cala inesorabilmente verso una incomprensibile noia che sfocia in una delusione senza, per questo, dovervi sconsigliare la visione. La storia riprende da dove ci aveva lasciato, andando a unire i puntini lasciati in sospeso, che disegnano una trama piatta e debole, fin troppo ortodossa per quanto si era abituati. Se le prime due stagioni erano un piacere la terza apparirà col tempo un dovere.
Perchè Pablo Escobar ha vinto ancora.
«Sono Ozymandyas, il re dei re. Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese». Prendo in prestito versi di Percy Shelley, che ben inquadrano la grandezza. Nelle prime due stagioni si raccontava in modo dettagliato e romanzato, l’ascesa e discesa di Pablo, moderna icona della criminalità, entrato nell’immaginario collettivo. L’ambizione lo accostava a Lazzaro e le sue idee imperialistiche a Cesare, se poi aggiungiamo la grandissima recitazione di Wagner Moura non possiamo non ammettere che alla fine della seconda stagione ci sarebbe un pò mancato. Il cattivo solitario dotato di virtù negative. Il problema della terza stagione sta esattamente qui, mancanza di caratterizzazione dei protagonisti, dal Cartello di Cali alle autorità colombiane e DEA, costantemente antitesi della parola “unione”, preferendo, come succede spesso per Noi uomini, ragionare con quello che si ha tra le gambe che con ciò che si ha tra le orecchie.
I quattro padrini (interpretati da Alberto Amman, Damiàn Alcàzar, Francisco Denis e Pèpè Rapazote) che formano il Cartello, non forniscono informazioni sul loro passato e non aggiungono good vibrations al presente, impedendoci di empatizzare quel poco da poter rimanere interessati alle loro vicissitudini. Vale anche per il nostro amico Pena (presente già nelle prime due stagioni, spalla dell’agente Steve Murphy) tramutatosi in antieroe inverosimile capace di far crollare una delle più grandi organizzazioni criminali che il mondo abbia disgraziatamente conosciuto. Personaggio di nota che fa da collante tra le due fazioni è Jorge Salcedo interpretato da un ottimo Matias Varela, il vero protagonista di questa terza stagione, drammi e gioie passano attraverso lui e la sua mirabile recitazione. Il fantasma di Pablo aleggia per tutta la visione. Una regia buona ma poco incalzante, la fotografia non pervenuta, e l’insieme di attori al quale non manca certo la bravura, rendono ancor più viva la nostalgia verso Escobar impedendo il focus sugli avvenimenti. Le emozioni e il patos che precedentemente ci accompagnavano, mano nella mano al pur ovvio finale, qui vengono a mancare per buona parte del tragitto lasciandoci smarriti.
Conclusioni finali
L’intento non è quello di allontanarvi dall’ opera ma di incuriosirvi, nella speranza di una quarta stagione migliore di quest’ultima che avrebbe dovuto ambire a una sceneggiatura particolareggiata, per raccontare una storia, che forse già perdeva in partenza col fascino perverso e voyeuristico presente antecedentemente con Pablo Escobar. Le premesse per migliorare “Narcos” ci sono. Ciò che manca sta nella didascalia della prima puntata, il realismo magico, dove elementi magici (il sogno utopistico) appaiono in un contesto realistico (la caduta con inesorabile morte). Terza stagione non votata al miracolo ma a un trampolino verso quella che dovrebbe essere l’ultima parte di questa storia, ambientata in Messico, culla contemporanea della cocaina.
GIACOMO TRIDENTI