Nello spazio di LetteralMente Donna di oggi, una donna che da anni si batte contro l’oppressione di un regime misogino e oscurantista che recentemente ha vinto il premio Nobel per la pace. La donna è Narges Mohammadi e questa è la sua storia
“Per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”. È la motivazione per cui quest’anno è stato assegnato il premio Nobel per la pace a Narges Mohammadi. Un atto dovuto per una donna che ha dedicato una vita intera alla battaglia contro il regime degli ayatollah che opprime l’Iran e che non si è mai fermata nonostante i continui arresti ed una condanna complessiva a 30 anni di carcere e numerose frustate.
Una lotta continua simboleggiata da quella sedia vuota ad una premiazione a cui la Mohammadi non ha potuto partecipare perché detenuta in carcere in pessime condizioni di salute. Un’assenza che potrebbe toccare ai genitori e al fratello di Mahsa Amini a cui le autorità iraniane hanno impedito di partire per Parigi e ritirare il premio Sakharov dedicato a questa giovane donna uccisa dalla polizia morale iraniana per non aver correttamente indossato il velo.
Narges Mohammadi, le sue battaglie contro il regime
La Mohammadi è in prima linea contro le torture, i soprusi e la misoginia del regime iraniano sin dagli anni 90′ con l’appoggio al riformista Mohammad Khatami ed è stata arrestata per questo ben 12 volte. Al centro delle sue battaglia la lotta contro le esecuzioni e le torture contro gli oppositori del regime islamico iraniano. Narges Mohammadi è diventata per questo nel 2008 la vicepresidente del DHRC, Defenders of Human Rights Center che si è occupato, finche ha potuto, della difesa degli oppositori politici e di coscienza nei procedimenti giudiziari in Iran. Una lotta che ha continuato anche dal carcere nonostante le violenze e le umiliazioni a cui è stata sottoposta nella sua detenzione. Una di esse, contro cui la Mohammadi, ha fatto sentire la sua voce in video, scritti ed un libro è la cosiddetta tortura bianca.
Con questo termine s’intende il regime di duro isolamento, minacce e pressioni psicologiche imposto agli oppositori politici in carcere in Iran. Un isolamento che la Mohammadi ha vissuto sulla sua pelle e di cui ha scritto, come riportato da Gariwo: “L’isolamento significa essere rinchiusi in uno spazio molto piccolo. Quattro mura e una porticina di ferro tutti dello stesso colore, spesso bianco. Non c’è luce naturale all’interno della cella. Non c’è aria fresca. Non si sente alcun suono e non puoi parlare o avere relazioni con altri esseri umani. Non hai niente tranne tre coperte sottili e logore, una camicia e dei pantaloni. Gli interrogatori sono condotti con minacce, intimidazioni e pressioni. I detenuti sono sottoposti a false accuse e a pressioni psicologiche per costringerli a false confessioni. Non ci sono contatti con familiari, amici o avvocati. La solitudine e l’impotenza influenzano la mente umana giorno dopo giorno”.
L’appello all’Onu
La Mohammadi è tutt’ora in carcere dove le vengono negate le cure nonostante i problemi al cuore le difficoltà respiratorie come rappresaglia del regime contro le sue campagne di protesta. Nell’ultima di queste ha fatto uno sciopero della fame per protestare contro la negligenza delle autorità nel fornire cure mediche ai detenuti e contro legge che impone alle donne di portare il velo in Iran. Nonostante le difficoltà è riuscita però a far arrivare fuori dal carcere tramite il marito una lettera a Oslo in cui scrive dal carcere di Evin dove è rinchiusa, come riporta L’Avvenire, di essere “profondamente scioccata per il modo in cui il mondo assiste impassibile al massacro e alle esecuzioni del popolo iraniano”. La Mohammadi ha, infine, chiesto “all’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani di intraprendere un’azione urgente e decisiva in nome dell’umanità per fermare le esecuzioni in Iran”.
Stefano Delle Cave
Seguici su Google news