Magari non può essere paragonata alle grandi rivalità NBA come quella decennale di cui abbiamo già trattato tra Lakers e Celtics, ma per quei quattro anni, Cavaliers e Warriors hanno dato vita a battaglie che sono passate alla storia, tutte per motivi diversi. Il palmares fa pendere l’ago della bilancia verso Golden State con tre titoli, ma l’unica vittoria di Cleveland è stata quella che più di tutte ha segnato questa rivalità. Non solo, perché quello che successe in quei 18 giorni tra la California e l’Ohio è leggenda.
Cavaliers e Warriors prima delle NBA Finals
Cleveland arriva alle finali dopo una stagione in cui più o meno tutto è andato liscio. Primo posto in Conference, infermeria abbastanza vuota tutta la stagione, un Lebron James carico fisicamente e mentalmente. Unico neo, il licenziamento di David Blatt; nonostante una non cattiva prima metà di stagione (30 vittorie e 11 sconfitte), infatti il coach israeliano aveva dovuto lasciare il posto all’assistente Tyronne Lue. L’ex play dei Lakers ha però in una squadra già rodata che conosce bene e riesce a portarla facilmente fino in fondo. Dopo aver perso solo due partite (con Toronto) su 14 giocate ai playoff, i Cavs sbarcano alla Baia di San Francisco in ottime condizioni.
Golden State, dal canto suo, firma una delle stagioni regolari migliori di sempre, vincendo 73 partite e riscrivendo i libri di storia del gioco. Dopo aver stabilito, da giocatore, il precedente record di 72 vittorie con i Bulls vent’anni prima, Steve Kerr lo supera da allenatore con gli Warriors. Una stagione che ha visto una schiacciasassi frantumare una miriade di record, guidata dall’MVP (back-to-back) Steph Curry. Ai Playoff 4-1 sia a Houston che a Portland, ma arrivati a OKC, i gialloblù rischiano lo scivolone. Durant e Westbrook riescono a portarsi in vantaggio di 3-1, ma cadono sul traguardo, con i ragazzi di Kerr che compiono una grande rimonta. Il destino di lì a poco li metterà nella condizione opposta.
Le prime due alla Oracle Arena
Gara 1 si gioca in una Oracle Arena, memore del titolo vinto un anno prima proprio contro i Cavs, che è una bolgia. Nonostante la pessima serata di Curry e Thompson (20 punti in due), Golden State riesce comunque a schiantare Cleveland 104-89. Ci pensa uno Shaun Livingston «posseduto dal demonio» (che metterà la somma dei punti degli Splash Brothers) a far andare definitivamente in tilt una difesa dei Cavaliers che per gran parte della partita sembra uno scolapasta. Pochissima sostanza in difesa, non abbastanza in attacco: 23 punti di Lebron e 26 di Irving non sono sufficienti per aprire la serie in vantaggio.
In Gara 2 le cose per i ragazzi di Lue vanno possibilmente peggio. La Oracle Arena si trasforma per una notte in una corrida in cui Golden State è il torero e Cleveland è il toro. Draymond Green viene accolto nella famiglia di cecchini di Steph e Klay e spara l’equivalente di triple che segnano gli avversari. Per i Cavs se la difesa rispetto alla partita precedente non è cambiata molto (stesso scolapasta), l’attacco si inceppa clamorosamente. Nessuno va sopra i 20 punti, Kevin Love rischia grosso battendo la testa e la squadra segna appena 77 punti. La spada degli Warriors colpisce profondo, tuttavia non trafigge a morte il corpo dei Cavs che rimangono ancora in vita.
Le prime due alla Quicken Loans Arena
Quando la serie si sposta in Ohio, le opzioni per Cleveland sono due: reagire d’orgoglio e rimanere a galla o mollare e perdere la serie. Il “Let’s go!” di Lebron dopo l’inno americano fa tremare la casa dei Cavs ed è indice dell’opzione che hanno scelto James e compagni. In Gara 3, infatti, i ruoli di toro e torero si invertono e Cleveland – nonostante l’assenza di Kevin Love – schianta gli Warriors 120-90. La squadra di Kerr è solo lontana parente di quella delle prime due partite, mentre i ragazzi di coah Lue cambiano volto in meglio, sia in fase offensiva che difensiva. Kyrie ne segna 30 e il Re tuona con 32 punti e una schiacciata che lo fa sembrare più una statua greca che un cestista.
Gara 4 è sicuramente la partita più equilibrata della serie fino a quel momento. Da un lato Golden State sa che deve riscattare una prestazione non da Warriors, dall’altro Cleveland che ha capito che gli avversari non sono imbattibili ma serve la testa di gara Gara 3. Curry diventa emblema della condizione della sua squadra e infatti segna il doppio dei punti (38) rispetto alla partita precedente sganciando 7 bombe dall’arco. Per i Cavs c’è ancora un grande Irving (34 punti) e un Lebron da quasi tripla doppia, ma la squadra cade nel finale. Green invece cade nella provocazione di James e reagendo commette un fallo che gli costerà la sospensione per Gara 5.
Inizia la rimonta
Ritornati alla Baia, alla Oracle Arena si preparano già i cannoni spara coriandoli; anche senza Draymond Green per gli Warriors ci sono i presupposti per vincere davanti a un pubblico che vale come un uomo in più in campo. Fortunatamente però il basket è uno sport non poco imprevedibile, e agli dei del gioco piace spesso mischiare le carte. Thompson gioca una partita fenomenale segnando 37 punti, accompagnato da Curry che ne mette 25, per un totale di 62 punti combinati. Una grande cifra che però non arriva agli 82 punti in due di Lebron e Irving (41 a testa), che diventano la coppia con più punti in una partita delle finali NBA. Grazie alla loro prestazione Cleveland riporta la serie in Ohio.
In Gara 6 Golden State intravede lo spauracchio della rimonta e perde di lucidità. Già nel primo quarto Cleveland mette una mezza ipoteca sulla partita portandosi 20 lunghezze avanti gli Warriors. Curry mette su una prestazione incredibile da 30 punti e 6 triple, ma non basta a evitare il crollo della sua squadra. I giocatori di Kerr, infatti, sono brutalmente e ripetutamente martellati da Lebron James, protagonista di una partita monumentale. 41 punti, 8 rimbalzi, 11 assist, 4 palle rubate, 3 stoppate e solo una palla persa. Una performance for the ages che fa palesare quel paradiso cestistico chiamato Gara 7.
Cleveland, this is for you!
Di Gare 7 ce ne sono state tante in NBA, ma mai nessuna si era conclusa con la vittoria di una squadra andata sotto 3-1 nella serie. Per questo (e per altri mille motivi) queste finali NBA in particolare sono entrate nella leggenda e sono considerate come uno dei più grandi momenti della storia del basket. La partita per i primi tre quarti è scandita da parziali e controparziali che fanno iniziare l’ultimo quarto in una condizione di quasi perfetto equilibrio. La tensione è così alta e le squadre sono così stanche che non segna quasi più nessuno. La svolta avviene a due minuti dalla fine, quando sul punteggio di 89 pari si succederanno tre grandi momenti per i Big Three di Cleveland che porteranno al titolo.
Il primo avviene quando su contropiede degli Warriors Lebron James compie un gesto iconico che passerà alla storia come “The Block“. L’uomo da Akron dal nulla «oscura la vallata» su un facile layup di Iguodala con una stoppata inverosimile. Un minuto dopo è il momento di Kyrie Irving: in uscita da un timeout, il futuro Uncle Drew spara in faccia a Curry il tiro più importante della sua carriera e della storia della franchigia. Pochi secondi dopo Kevin Love difende un possesso di Curry con un movimento di piedi che pochi lunghi si sono mai potuti permettere contro Steph riuscendo a fermare un suo tiro. Da lì in poi Golden State non segnerà più e, avanti di quattro, Cleveland vincerà la partita e il suo primo titolo.
Si tratta del primo titolo sportivo a livello professionistico di una squadra con sede a Cleveland dal 1964. Il figliol prodigo, tornato a casa con una missione, l’ha finalmente portata a termine, e l’ha fatto in grande stile. In queste NBA Finals Lebron è diventato il primo giocatore a guidare le principali cinque voci statistiche di tutti i giocatori in campo in una serie playoff. Inoltre è anche l’unico giocatore ad aver realizzato una tripla doppia in una Gara 7 di finali NBA; questo, insieme a tutto il resto, gli varrà il titolo di MVP delle Finals (il terzo in carriera). L’urlo da brividi “Cleveland, this is for you!” ai microfoni di Doris Burke rappresenta tutto il complesso e magnifico rapporto del Re con la propria città.