Cinema

Nessun nome nei titoli di coda, intervista ai protagonisti!

“Nessun Nome nei Titoli di Coda” di Simone Amendola ha finalmente visto il buio della sala. Ieri, 5 marzo, al Nuovo Cinema Aquila (Roma, fermata Metro C “Pigneto”), il nome di Antonio Spoletini è finalmente comparso nei titoli di coda e, sebbene gli ci siano voluti ben sessant’anni di carriera per assurgere alla parte del protagonista, possiamo dire che ne è valsa la pena.

Nessun Nome nei Titoli di Coda
Photo credit: WEB

Il documentario scritto da Simone Amendola e prodotto dalla Hermes Production si è rivelato un bello spaccato su quelle che sono le “quinte” che appartengono alla locuzione “dietro le quinte”: le comparse – o figuranti -. Il documentario, audace nell’uso delle inquadrature fisse e a campo largo – differenziandosi da gran parte dei documentari di genere degli ultimi anni dove gli stacchi sono molto più rapidi -, oltre a raccontarci il lavoro quotidiano del simpaticissimo Spoletini, si caratterizza per un racconto portante nel quale il protagonista cerca, in tutti i modi, di recuperare la pellicola di “Roma”, il capolavoro felliniano al quale partecipò assieme ai suoi fratelli (anche loro figuranti).

Sono diversi i rappresentanti della settima arte italiana e non che si sono visti nell’opera. Tra i tanti figurano Anthony Hopkins, Pupi Avati e Marcello Fonte. Quest’ultimo, come raccontato prima della proiezione, trovò il suo primo grande ingaggio in “Gangs of New York” di Martin Scorsese, film al quale partecipò proprio Spoletini in qualità. Una scena emblematica, in tal senso, vede Antonio fornire a Fonte una copia della sceneggiatura originale dell’opera, tra attimi di nostalgia misti a goliardia.

Nessun Nome nei Titoli di Coda
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Un documentario originale, pieno di brio e, al contempo, condito da un sapore agrodolce che si palesa nel finale. In particolare, la scena che ci pare d’obbligo raccontare è quella del funerale di Federico Fellini (regista cui Spoletini è parecchio legato, chiamandolo affettuosamente con il suo nome proprio). La voce fuori campo, in quel frangente, descrive proprio il senso di tutto il girato, snocciolandoci i nomignoli con cui sono noti nell’ambiente i personaggi che lavorano dietro le quinte, i quali, rimanendo nelle retrovie, rendendo possibile la realizzazione dei film.

L’intervista

Con l’occasione dell’uscita del film, inoltre, abbiamo avuto l’occasione di poter intervistare i protagonisti. Dal disponibilissimo Cristiano Sebastianelli, fondatore della Hermes Production, a Simone Amendola e Antonio Spoletini.

Sebastianelli, convivialmente, ci ha raccontato che l’idea per questo documentario nacque circa due anni fa, a cena. Originariamente, la proposta che era stata fatta a Spoletini si riferiva a un libro – progetto non ancora accantonato – il quale raccontasse di tutte i registi con cui Antonio aveva lavorato durante tutta la sua carriera. O meglio, per citare le sue parole: “Faccio prima a dirti con chi non ho lavorato“.

Spoletini, peraltro, prima che cominciasse l’intervista vera e propria, ci ha raccontato di un aneddoto riguardante proprio il Pigneto – la zona dove si trova il cinema -, famoso per esser stato il teatro usato da Pasolini per il suo “Accattone”, al quale, manco a dirlo, il nostro Antonio partecipò come figurante.

Nessun Nome nei Titoli di Coda
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Ecco un estratto della nostra intervista:

M.M.: Bene, Simone. Ci hai raccontato la storia che sta dietro la nascita di questo film, con quella cena che diede il la a tutto. Tuttavia, vorrei farti una domanda un po’ più approfondita sul come hai fatto a “innamorarti” dell’opera al punto da volerla dirigere e rendere tua?

Amendola: Bella domanda. Una cosa che ho pensato è che questa, di base, non si discosta da tutte le cose che, di solito, cerco di raccontare nelle altre mie storie. Quel che mi interessa è il far diventare protagonisti coloro che lo meritano ma che non lo sono, o ai quali non è riconosciuto fino in fondo. Una visibilità, un’emersione. Un figurante che diventa protagonista, laddove, comunque, quella carica da protagonista, in fondo, l’ha sempre posseduta, lavorando con grandi registi e autori, dando del tu a tutti, ma rimanendo comunque tagliato fuori dalle luci della ribalta, da certi ambienti. La cosa che mi colpiva era la storia di un uomo, ormai ottuagenario, che racconta una storia umana oltre che di cinema; giacché, in tutti questi anni, egli può annoverare rapporti umani di ogni tipo, creati con chiunque abbia frequentato anche di sfuggita il cinema. Il vissuto dietro al cinema.

M.M.: A proposito di rapporti. Questa è una domanda che rivolgo a entrambi. Il rapporto che si è creato tra voi due. All’inizio e l’evoluzione successiva, sino ad arrivare a oggi, dove si percepisce una certa chimica tra voi due. Com’è stato? Avete avuto chimica sin dall’inizio?

Spoletini: Io, da per me, mi sono trovato bene sin da subito. Ho avuto modo di leggere il libro scritto da Simone Amendola precedentemente e, a ogni pagina, riuscivo a immaginarmi quello che voleva comunicarmi. Se io certe cose riesco a leggerle e immaginarle, ho subito chiari quelli che sono gli intenti del regista. Mi sono trovato benissimo, con tutti quanti. Nel tempo stesso ero impegnato in altri lavori che sto svolgendo parallelamente, però mi sono trovato benissimo.

Amendola: Sì, anche io. Sono entrato un po’ in punta di piedi. Conoscendo un po’ quel mondo, ho cercato di imprimere quello che mi piace raccontare, senza, tuttavia, invadere le dinamiche di meccanismi oliati. Loro facevano e io entravo e uscivo. Anche perché, sono convinto che le cose escono meglio se le fai in silenzio, senza imporre la tua voce. Da lì, poi, si è creato un ottimo rapporto di collaborazione e di stima. Ad esempio, la cosa peggiore mai capitatami è che ci possano essere dei filtri ideologici tra chi racconta e chi è raccontato. In questo caso, invece, devo dire che non è successo; è stato un percorso umano oltre che cinematografico.

Nessun Nome nei Titoli di Coda
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M.M.: La mia domanda, infatti, nasceva da una curiosità. Qualche mese fa, difatti, ho avuto l’onore di presenziare al riconoscimento del premio “Kinèo” a Lina Wertmuller la quale, è ben noto, fosse parecchio severa coi suoi attori, pertanto, volevo tentare di immedesimarmi nei tuoi panni [riferito a Simone Amendola] quando ti poni, come regista di una generazione differente, dinanzi a un personaggio dell’esperienza di Antonio.

Amendola: Sì, certo. Ovviamente c’è una grossa differenza tra un documentario e un film di finzione. A me, per esempio, hanno raccontato delle cose riguardanti registi che, praticamente, chiedono agli attori di reinterpretare la scena in modo identico a come l’hanno pensata. A quel punto credo si possano creare dei contrasti, perché, in quel caso, tu ne limiti la libertà, oltre che la creatività. Un attore potrebbe comunque fare di più, invece, così facendo, ne limiti l’espressività. Ovviamente ci sono casi in cui dici “l’ha fatto Kubrick” e va bene così. Tuttavia, non sempre è giusto imporre il tuo pensiero sulla recitazione. Un documentario è un viaggio diverso: se riesci a incrociare la sensibilità del protagonista, per assurdo tutto diviene più semplice e collaborativo.

M.M.: Mi sono rimaste due domande. La prima riguarda il successo in Francia. Ve lo aspettavate? E, a vostro avviso, perché proprio la Francia è rimasta affascinata da questo lavoro?

Amendola: Beh, il successo in Francia è stato un po’ inaspettato in questi termini, comunque, durante la lavorazione, alcuni membri della troupe ci avevano detto: questo piacerà ai francesi. Il sapore un po’ agrodolce, lo stile un po’ narrativo e, senza trascurarlo, l’occhio di riguardo che i francesi hanno sempre verso il nostro cinema, ci hanno aiutato. Poi, un po’ per il concetto, un po’ per la memoria, un po’ per il tipo di umorismo grottesco, condito dal succitato retrogusto agrodolce, hanno fatto sì che trovassimo grande interesse oltralpe. Ammetto che è uno spirito che è venuto fuori dopo, senza che ci avessimo pensato inizialmente, ma ne sono molto soddisfatto.

Nessun Nome
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M.M.: un’ultima domanda per Antonio. Prima dell’intervista mi hai raccontato svariati aneddoti sulla tua carriera, soprattutto su Pasolini, su Troisi, ecc. C’è qualcuno che ti piacerebbe condividere coi nostri lettori di Metropolitan?

Spoletini: Beh, certo. Tu prima hai citato la Wertmuller. Io ci ho lavorato con lei. Eravamo sul set di “Mimì Metallurgico”, ad Ognina, a Catania. Lei aveva richiesto cinquanta comparse per un’inquadratura dall’alto, ma, in pochi istanti, sono arrivate almeno centocinquanta persone. Ho suggerito a Lina di fare un’inquadratura che le prendesse tutte. Ovviamente abbiamo chiesto ai presenti se erano interessati a figurare, e, ottenuto il “sì”, ho subito detto a Lina che doveva girarla “buona la prima”, giacché sarebbe stato impossibile dare indicazioni registiche come “tu spostati di qua, tu di là”, a tutta quella gente. Lei mi ha dato retta… per cinque minuti. Dopo un po’ s’è messa a dire “tu di qua, tu di là”.

Nessun nome
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Finita l’intervista, abbiamo avuto modo di sentire un altro aneddoto raccontato proprio da Spoletini. Una storia parecchio divertente riguardante il film “Lettera al Kremlino” di John Huston. Il regista statunitense, all’epoca, dovette rinunciare per qualche giorno ai suoi tre aiuto-registi, colpiti da malanni vari. Chiese aiuto proprio ad Antonio, il quale, in quell’istante, fu avvicinato da Orson Welles. Alla domanda del celeberrimo autore di “Quarto Potere”, “Antonio, pure qua stai?”, seguitò Huston chiedendo: “Ma tu conosci proprio tutti?”.

In conclusione, “Nessun Nome nei Titoli di Coda” è un film che consigliamo di vedere. Non solo per coloro che amano il dietro le quinte del cinema, poiché, come detto, questo è lo spaccato umano di una persona che ha vissuto pressoché tutto il cinema della seconda metà del Novecento, e che ancora lo continua a vivere. L’unico individuo ad aver partecipato al “Ben Hur” del 1959, e al suo remake del 2008.

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