Volendo partire dall’etimologia del vocabolo, “catcalling” è un termine, fra i tanti, preso a prestito dall’inglese, “lingua in cui la parola è attestata col significato attuale a partire dal 1956”, come riporta l’Accademia della Crusca. Formato dal verbo (to) catcall, il termine catcalling è intraducibile alla lettera. Nel suo significato originario di “verso che i gatti fanno di notte” è attestato a partire dal 600. Mentre dalla seconda metà del settecento aveva per lo più il significato di “grido, lamento, suono simile a un lamento”, e veniva utilizzato per indicare l’atto di fischiare a teatro gli artisti sgraditi e il fischio di disapprovazione stesso.

Attualmente, il catcalling è diventato un vero e proprio fenomeno, molto diffuso, eppure non propriamente riconosciuto, che si riferisce a tutti quegli atti o commenti che vanno dal “ciao bella” ai complimenti non richiesti e principalmente volgari, riferiti al corpo piuttosto che all’atteggiamento della donna da parte di sconosciuti: espressione di una mentalità sessista e maschilista tale da considerarsi una specifica forma di molestia di strada, nonché molestia sessuale. Perché la violenza sulle donne può manifestarsi in diverse forme, da quella fisica a quella mentale, così come verbale. La stessa che, in particolare, colpisce molte donne in modo inconsapevole, segnandola, come in tutti gli altri casi di violenza di genere, nel profondo, tanto che spesso ci si chiede “che cosa ho fatto?”

Sminuire o negare il catcalling vuol dire ristabilire dinamiche di potere

Fu il caso di Ruth George a riportare l’attenzione sulle molestie da strada e sul fenomeno del catcalling: la studentessa di 19 anni fu uccisa a novembre dello scorso anno, a Chicago, da uno sconosciuto incontrato per strada, che insistentemente aveva commentato il suo aspetto e l’aveva seguita. Per poi stuprarla e strangolarla nel parcheggio del campus, proprio perché si era rifiutata di ‘parlare’ con lui, come lo stesso omicida disse nel giustificare il suo atto. La tendenza è spesso quella di minimizzare il problema, finendo, nel migliore dei casi, per ridurlo a ‘maleducazione’, tutte quelle volte in cui non si può dare la colpa alla donna per il modo in cui si era vestita o atteggiata. Perché il confine tra complimento e molestia, a quanto pare, è labile. Dietro quelle che vogliono apparire come ‘belle parole’ non risiede il movente ‘sessuale’, non c’è una scarsa capacità di resistere agli impulsi. Dietro quelle parole, di fatto, si cela una stereotipizzazione di genere da cui deriva nient’altro che una scarsa stima nei confronti della donna, ridotta così ad oggetto del desiderio, dunque destinataria di fischi, commenti, domande invadenti, che con le lusinghe hanno poco a che spartire: “Mi fai impazzire” o “Vuoi uscire con me?” non sono sintomo di reale interesse, non sono manifestazioni di piacere, ma di “mascolinità”. Nasconderle dietro un complimento sono un modo per fingere che poi sia la donna ad aver frainteso, e quindi la menzogna è doppia: non era un complimento e non c’erano buone intenzioni. Per questo le cose necessitano di essere chiamate con il loro nome, che in questo caso è molestia.

Uno studio sul tema, condotto su scala internazionale dal movimento contro lo street harassment “Hollaback!”, in collaborazione con Cornell University, nel 2015, ha dimostrato come per l’84% delle donne intervistate (16.000 provenienti da 22 Paesi), la prima esperienza di catcalling sia avvenuta prima del compimento dei 17 anni. Un dato a dir poco preoccupante, se si considera quanto può influire sulla crescita di un adolescente. Senza dubbio, la varietà di reazioni è legittima: c’è chi non si infastidisce di fronte a certi tipi di ‘attenzioni’. Ma l’indagine ha mostrato come i sentimenti più comuni siano rabbia e senso di umiliazione. Nonché depressione e bassa autostima della donna, portata di conseguenza a cambiare abbigliamento, a prendere strade più ‘affollate’ e tranquille, a tornare a casa prima di una certa ora, e con le chiavi in mano lungo il tragitto. A cambiare la mappa delle proprie abitudini che di fatto porta a limitare le proprie libertà. Secondo una ricerca di Fairchild e Rudman, nel 2018, solo il 20% delle donne affronta apertamente gli uomini che le molestano. Perché il senso di impotenza, mischiato alla paura, ti costringe a non reagire. Per il timore di subire ulteriori violenze, spesso. E alla fine ci si sente anche in colpa di aver provocato quello sguardo maschile.

Il problema non è se gli uomini sono così o no, il problema è quello che fanno. Mettersi nei panni di una donna significa automaticamente accorgersi del ‘privilegio’ di cui l’uomo gode, ereditato per via culturale, da cui deriva il secondo problema, che sta nella narrazione che si dà di questo fenomeno, inquadrato ancora su quel filo del rasoio che oscilla sempre di più dal lato più comodo, quello cioè dell’accezione positiva del termine catcalling. In quest’ottica, un cambiamento di mentalità sembra più che lontano: da un lato, la mancanza di violenza fa sì che non venga inquadrato come un vero e proprio reato, dall’altro sono le donne stesse a evitare di parlarne, perché la vergogna o il semplice rischio di aver ‘ingigantito’ o ‘frainteso’ un episodio – come in molti casi si pensa – spinge al silenzio. Nella nostra cultura persiste l’idea per la quale ricevere attenzioni da parte degli uomini, qua e là, è assolutamente normale. Ma ci sono stati anche casi in cui dal pedinamento, al fischio, si è finiti nell’aggressione fisica. Anche questo confermato da una ricerca Istat che nel 2018 ha messo in luce come le situazioni in cui le vittime sono state accarezzate o baciate senza volerlo, sono state subite dal 15,9% delle donne, la maggior parte dei casi da parte di estranei sui mezzi di trasporto pubblici (27,9%). Per alcuni Paesi, lo street harassment è diventato reato. Ad esempio, in Francia, il presidente Macron ha varato nel 2018 una legge che multa, dai 90 ai 1500 euro – a seconda della gravità – chi rivolge dei complimenti non richiesti alle donne incontrate per strada, in quanto il catcalling è molestia sessista che non ha nulla a che fare col flirt consensuale.

Per quanto se ne possa parlare sul web, il fenomeno resta ancora ai margini di una riflessione seria e approfondita. Commenti come quelli di Damiano Coccia, meglio noto come “Er Faina” ne sono la dimostrazione lampante. “Per du fischi il cat calling”, ha esordito il paladino dell’anti-politacally correct su Instagram – che in questo caso di “anti” non ha solo il politically correct – in riferimento a quanto denunciato recentemente da Aurora Ramazzotti, figlia del cantante Eros e Michelle Hunziker, che in alcune stories aveva espresso la sua rabbia nell’essere spesso vittima di avances sgradite in strada: “Ci rendiamo conto che nel 2021 succede ancora di frequentare il fenomeno del cat calling?”. Una domanda a cui si è costretti a rispondere positivamente, dal momento che nel 2021 siamo costretti a sentire chi ancora minimizza o addirittura nega un fenomeno così diffuso, subìto da moltissime donne. Questo, tra l’altro, significa sminuire la persona stessa che lo subisce. Perché il catcalling affonda le sue radici nella disparità di genere: dire che non esiste significa negare la disparità, fingere che non esista. Sensibilizzare l’opinione pubblica sarebbe allora un primo passo. Puntare sull’educazione. Far capire che l’interazione può anche nascere da una battuta, ma la chiave è capire il contesto, l’approccio adatto, e la persona che abbiamo davanti. Le relazioni necessitano di ascolto. Non si combatte il catcalling insegnando alle donne come reagire, ma insegnando agli uomini come smettere.

Francesca Perrotta